Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraïm
       Sovrano Santuario Italiano

 

(Berosso)Tradizione primordiale




 

Comparazione sulle verità delle forme della Tradizione primordiale: le testimonianze più antiche.

Berosso

La comparazione tra diverse tradizioni spirituali.

Se gli studi su base comparatistica consentono di evidenziare quelle strutture universali che rimangono celate sotto i singoli fenomeni, per l’Iniziato essi consentontono la riscoperta di quell’impronta della Tradizione Primordiale – che egli chiamerà con espressioni del tipo: Philosophia Perennis –, Tradizione di origine non umana, che si dispiega nel divenire sempre cangiante delle forme a seconda dei luoghi e dei tempi della storia umana.
È questa la differenza che marca i percorsi di ricerca dell’accademico e dell’iniziato, poiché entrambi sono tenuti ad applicare nel rigore scientifico il metodo comparativo, ma l’accademico, rinserrato nei suoi limiti, che proprio da tale rigore sono determinati, si esclude dal poter cogliere gli apetti più profondi della verità.
Si è generato un grande equivoco, negli ambiti degli iniziati, a proposito dei rapporti fra il ricercatore iniziato e quello dell’accademia. Occorre ribadire il punto fermo che, ssendo la Philosophia perennis la Gnosi, Conoscenza della Verità ultima, non può non essere riconoscibile, poiché il Divino “si squaderna” nell’Universo, e quindi di necessità se ne riconosce la funzione di Principio della molteplicità. Partendo da questa base, di evidente chiarezza, possiamo tornare all’equivoco.

Molti iniziati, infatti, sono stati condotti ad abbandonare il rigore metodologico, considerato come appannaggio proprio di un’Accademia, forse perché delusi da atteggiamenti di chiusura, come quelli che il mondo accademico ha tenuto e tuttora tiene nei confronti delle interpretazioni “esoteriche” della Divina Commedia, sia per un malinteso senso di superiorità, che l’Iniziazione, in quanto tale, avrebbe loro conferito.
Avviene così, tanto per scendere dalle nuvole delle formulazioni astratte nel concreto dei casi della vita, che uno Zecharia Sitchin (scomparso il 9 ottobre u. s.), partendo da quelle stesse tavolette cuneiformi sumeriche, babilonesi ed assire che io studio, e dalle quali spero di dimostrare l’unicità della Philosophia Perennis, ha prodotto una teoria che vede nelle divinità dell’antica civiltà mesopotamica tracce di interventi alieni su questo pianeta.
Davanti a fenomeni come questo, dobbiamo interrogarci sui rapporti tra i due percorsi, quello della scienza accademica, quale garanzia di rigore, e quello della ricerca esoterica, proteso verso la gnosi.

Il ricercatore accademico acquisisce, come prima qualità del suo comportamento il distacco. Egli è un osservatore neutrale, che esamina con la più assoluta obiettività i fenomeni che considera. Quest’attitudine interiore, più difficile da conseguire di quanto possa sembrare, si sposa con un atteggiamento interiore di scetticismo o agnosticismo rispetto ad una visione totale, che, nel migliore dei casi, viene data per inconoscibile, quando non ne viene addirittura negata l’esistenza: valgano come esempio – ne scelgo apposta uno dei più banali – le parole che Nikita Kruscev disse dopo la missione del primo astronauta in orbita attorno alla terra (Yuri Gagarin nel 1961), quando affermò che non si vedeva alcun dio lassù. Questo atteggiamento, che sembra fondato sulla più responsabile serietà oggettiva e sul buon senso, costituisce in realtà l’esito di una perdita, ovvero la perdita del raggio che la Luce Superiore invia e senza il quale è impossibile procedere sulla via per acquisire la Gnosi.
Molti Maestri hanno visto in questo atteggiamento il più strepitoso successo delle forze contro-iniziatiche (che costituiscono lacune nella Luce iniziatica), poiché un atteggiamento materialistico sostenuto da un’impostazione di pensiero positivistica non può essere confutato, poiché si deve partire dalla base materialistica stessa. Chi volesse tentare, si troverebbe in un contraddittorio in cui dovrebbe produrre argomentazioni attraverso ragionamenti difficili, tortuosi come sentieri a stento praticabili che costeggiano precipizi e burroni. Ma questo non basta. Il materialismo è dotato della forza che gli deriva dall’essere la mentalità dominante nel nostro mondo: è diventato dogma, verità posta innanzi a qualsiasi verifica o dubbio. Volenti o no, consapevoli o meno, insieme al latte materno assumiamo il modo di pensare in termini materialistici, e questo vale anche per i credenti. Come corollario, segue:

  1. da un lato la convinzione che la mentalità materialistica sia “buon senso”, un “buon senso” ancorato alle cose concrete, le uniche ritenute vere,
  2. dall’altro sul materialismo si fonda il mito del “progresso”, soprattutto tecnologico, assurto a metro delle capacità umane (per esempio, quando sentiamo dire: “quella è certamente una civiltà superiore: sapevano già costruire i ponti!”

Così può avvenire, e, purtroppo, vediamo che avviene, anche tra le nostre file, che il materialismo buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra.

Spinti da sete di conoscenza, ma poco attenti alle modalità di sviluppo del proprio ragionare, soprattutto alle basi di partenza, molti iniziati cadono nella trappola. Gli UFO di Sitchin e di altri come lui costituiscono il trionfo del materialismo, nel suo aspetto della maggiore tecnologia e quindi del progresso di una stirpe extra-terrestre superiore. Perché gli UFO e simili non sono qualitativamente diversi da un aereoplano, ovvero dalle realtà materiali che ci circondano, se non nel fatto che gli UFO sono “più avanti, più progrediti”! D’altro canto nulla hanno a che fare gli UFO con le realtà spirituali, che in tutto da quelli si differenziano.

Caduto nella trappola l’iniziato si colloca allora in posizione polemica nei confronti del sapere accademico, posizione assunta per pregiudizio (anche se in qualche caso giustificato) e si lascia sedurre dal brivido di inseguire l’emozionante ricerca di tracce aliene, che nulla avrebbero a che fare, quand’anche ci fossero, con la Gnosi: così come la scoperta dei resti di un’antica città sepolta, in sé, direttamente, nulla può dare per un progresso sulla via della Gnosi. Si consideri l’esempio della città di Ebla, in Siria, scavata dagli Italiani e sui cui testi ho lavorato anch’io, che in sé non ha portato nessun passo avanti nella ricerca spirituale.

Polemiche tra ‘esoteristi’ e ‘accademici’: il caso della Divina Commedia.

Bisogna dire che l’agnosticismo positivista del mondo accademico è il secondo colpevole, dopo la scarsa vigilanza, ad opera degli iniziati stessi, nei confronti della mentalità materialista, di questo stato di cose. Un caso esemplare, come s’è detto, è l’interpretazione esoterica della Divina Commedia e di tutta l’opera di Dante Alighieri in generale. Lasciando da parte Boccaccio, che, come pare, tergiversò per salvare il poema dalle fiamme del rogo, dal XIX secolo iniziò una serie di studi, da parte di diversi autori, in direzione esoterica, più o meno netta. Il primo fu il grande Ugo Foscolo, cui poi seguirono altri, in una linea di ricerca che continua ancora adesso, press’appoco ignorata dalla critica ufficiale, come ieri, così oggi. Una breve rassegna senza pretese su questa ricerca è stata tracciata da Berosso, e la ricordo perché è presente sul sito del nostro Venerabile Rito (Rebis in Arte Regia, ottobre 2009), quindi non mi soffermo oltre, ma vengo direttamente al punto.
Qual’è questo punto discriminante? Perché mi devo dissociare dal sapere accademico se si tratta della Divina Commedia e invece devo restare ad esso aderente quando sono in questione gli UFO di Sitchin?

Ora dovrebbe risultare chiaro: quando l’Accademia interpreta al buio, priva della Luce della Philosophia Perennis, non può cogliere il senso vero di ciò che studia. L’Accadamia è invece credibile quando analizza fenomeni materiali, che cadono nel dominio dei nostri sensi, sia direttamente, sia attarevrso strumenti che ne amplino le possibilità.
La complessa simbologia del Paradiso Terrestre, nel Purgatorio di Dante, ha una ricchissima valenza di contenuti spirituali, ma, se considerata nella prospettiva di un ricercatore avventato che seguisse le orme di Sitchin, diventerebbe il resoconto di uno sbarco alieno in cima a chissà quale montagna della Cordillera delle Ande. E questo è materialismo. Così la mitologia degli dèi di Sumer e di Babilonia sono materialismo quando Sitchin li analizza come testimonianze – assolutamente strampalate – di sbarchi di UFO o di pianeti erranti. Questa mitologia, invece, come la Divina Commedia, è una rappresentazione di dottrina iniziatica, discesa dalla Tradizione Primordiale come ora vedremo.

Il bradisismo flegreo: l’emersione del pilastro sommerso nella Tarda Antichità.

Perché per esporre le linee di fondo del pensiero mesopotamico mi rivolgo alla produzione filosofica della Tarda Antichità? Cosa avvenne allora, da rendere opportuno un percorso attraverso quell’esperienza per arrivare al mondo dei Sumeri e  degli Assiro-Babilonesi?

Vorrei riprendere qui quanto esposto da me nel contributo sull’esoterismo di Dante ricordato prima, allorché citò, modificandola, un’affermazione che i due studiosi di esoterismo, R. van den Broek e W. J. Hanegraff, hanno posto all’inizio del loro volume di cui sono curatori, Gnosis and Hermeticism from Antiquity to Modern Times, State University of New York Press, New York 1998, alla p. vii. La civiltà europea, occidentale, poggia su quattro pilastri.
Un pilastro è la religiosità giudaica, cui si deve il monoteismo, e della quale il Cristianesimo costituisce uno sviluppo diretto.
Un secondo pilastro è la logica greca, cui si deve la nascita delle scienze.
Il terzo pilastro è il diritto romano, su cui si fonda l’amministrazione della società. E sull’esistenza di questi tre pilastri non c’è molto da dire, poiché è opinione ampiamente condivisa.
Ma ne esiste un quarto, che, come le rovine antiche a Pozzuoli, Baia e Campi Flegrei, nei secoli si inabissa o riemerge. Questo pilastro è la gnosi ermetica, l’esposizione sistematica della Tradizione Primordiale. Ogni dottrina cui sia stato dato un assetto sistematico non può cogliere altro che uno scorcio, una veduta sulle Realtà Intellegibili e su quella Realtà Somma che non è neppure intellegibile; solo le rappresentazioni simboliche possono fornire un supporto affidabile verso la Gnosi. La caratteristica del pensiero della Tarda Antichità fu proprio l’aderenza e la valorizzazione, in chiave filosofica, di quegli insiemi simbolici che sono le mitologie di civiltà che già allora erano in via di sparizione.

Infatti, dall’opera di Filone Alessandrino, contemporaneo di Gesù, fino al VI sec. d. C., quando l’imperatore Giustiniano nel 527 chiuse l’Accademia platonica di Atene, dove aveva insegnato, fino a pochi decenni prima, anche Proclo (412-485), la Tarda Antichità produsse diversi filoni di pensiero (neo-platonico, ermetico, alchemico, astrologico, magico-ritualistico ed altri) in cui il patrimonio delle antiche civiltà dell’area vicino-orientale, ma anche della grecia stessa, erano recuperate e valorizzate attraverso nuove inedite interpretazioni che ne riconoscevano la validità tradizionale. L’apice speculativo di questo periodo è costituito dalla filosofia di Plotino, che riconsiderò il messaggio platonico determinando ricchissimi sviluppi futuri (Porfirio, Giamblico, Proclo, per ricordare i maggiori). Accanto alla tradizione neo-platonica si devono collocare opere quali i trattati del Corpus Hermeticum e gli Oracula Chaldaica, in entrambi dei quali l’influenza platonica è distintamente percepibile.
Forse – come abbiamo detto prima – si può prendere come punto di partenza l’opera di un orientale, l’ebreo Filone, rabbino di Alessandria, che interpretò l’Antico Testamento alla luce del pensiero platonico, determinando un genere di ricerca che fu seguito anche da Plotino, che lo rivolse alla teogonia greca e che, tanto fu interessato alle esperienze orientali, che cercò di raggiungere l’Oriente per conoscere gli insegnamenti colà impartiti, arruolandosi nell’armata di Gordiano III.
Platone e il dio egizio Thot, Hermes dei Greci, queste due grandi fonti di sapienza, possono essere presi come immagine sintetica della strada intrapresa dal pensiero della tarda Antichità.
Il mezzo millennio di storia del pensiero del Levante ellenizzato di età imperiale è un fervore di studi e ricerche che recupera  il patrimonio mitologico antico e ne riconosce la validità quale fonte di verità e sapienza. Questa Verità e Sapienza si collocano pienamente nell’alveo della Tradizione Primordiale: durante i primi secoli dell’era crisitiana, il bradisismo portò in piena luce il quarto pilone, il pilone sommerso.

L’esposizione  della dottrina: la lingua logica, post-platonica/parmenidea, e la lingua figurata del mito. La dottrina della Philosophia perennis espressa in lingua logica illumina, per noi logici post-platonici, la stessa dottrina nella lingua del mito.

L’importanza di quest’emersione è immensa. Infatti, per la contingenza storica che si verificò allora, e su cui non posso soffermarmi in questa sede, il pensiero della Tarda Antichità si pose come chiave comparativa di traduzione tra due lingue: una logica, basata sui concetti astratti e una figurata, ovvero la lingua del mito.
Le elaborazioni, sia dei filosofi neo-platonici, sia del Corpus Hermeticum o degli Oracula Chaldaica, per quel poco che ne resta, espongono il pensiero mitico tradizionale in termini “logici”, ovvero, usan termini astratti, quali “essere”, “divenire”, “genrazione”, “universale”, “intellegibile” e molti altri. Questa innovazione ebbe in realtà inizio con Parmenide, allorché pose al centro del suo pensiero l’Essere, ma fu portata al massimo delle sue possibilità espressive dalla filosofia di Platone.
Come sia avvenuto un cambiamento così radicale, da rendere necessario l’uso di termini astratti per esprimere le verità metafisiche, che prima di Parmenide erano rese col linguaggio figurato del mito, è difficile a dirsi. Nel contributo di Berosso, cui ho fatto prima menzione, e cui rinvio, è riferita la teoria di Domenico Antonino Conci, che offre una soluzione valida. Nel qudro di generale confusione, per recuperare un rapporto col Sacro quindi, la lingua figurata del mito non era più sufficiente e si sviluppò il linguaggio fondato sull’uso dei termini astratti.

Esempi significativi dalla mitologia sumerica studiata alla luce del pensiero di autori dell’età imperiale.

Ora, questo uso è continuato in Occidente fino ai giorni nostri, tanto che ci è difficile cogliere il messaggio profondo celato nei simboli (tra cui il linguaggio mitico va annoverato); oggi la strada passa attraverso quei discorsi fatti col linguaggio a noi usuale di termini astratti, ma che sono discorsi rivolti ai contenuti dei miti, veicoli della Philosophia Perennis. In questo senso, le opere dei filosofi o teosofi della Tarda Antichità sono quant’altri mai utili, dal momento che rispondo in pieno al requisito appena esposto.

Darò qui degli esempi, perché un’esposizione complessiva richiederebbe almeno un intero corso annuale. Questi esempi sono tratti da ricerche da me condotte, ricerche che hanno un carattere parziale, dal momento che sto procedendo per settori, per arrivare alla visione finale d’insieme dell’agnizione della Philosophia Perennis nella mitologia mesopotamica.

Esempio 1. Inana e Dumuzi

La letteratura sumerica ci ha tramandato un complesso di canti, che solo in modo approssimativo possono essere congiunti in un’unica trama, pur riferentsi tutti alla stessa vicenda, considerata talvolta con differenze anche cospicue. Questo complesso tramanda le vicende della giovane dea Inana, la Venere dei Sumeri, e del suo sposo Dumuzi, il pastore. Alcuni canti celebrano l’incontro e il flirt delle due divinità (diciamo così per semplificare, perché sulla divinità di Dumuzi ci sarebbero precisazioni da fare), altri ne celebrano le nozze e infine altri riferiscono sulla triste fine di Dumuzi, trascinato agli inferi dai demoni. Esiste poi una serie di canti che esaltano la figura di Dumuzi, e che furono erroneamente considerati relativi ad una resurrezione del dio (che non avviene). Una sintesi recente, che espone tutta questa materia si può reperire in P. Mander, Canti sumerici di amore e morte – La vicenda della dea Inanna / Ištar e del dio Dumuzi / Tammuz, Paideia, Brescia 2005. Ora questa sembrerebbe una bella trama che ha dato origine a dun filone di letteratura poetica a carattere tragico-amoroso, ma se la si considera in controluce illuminata dal trattatello dell’imperatore Giuliano Alla madre degli dèi, si scoprono sorprendenti analogie, non solo di dettaglio, ma, e soprattutto, di struttura. Non posso fornire prove e dilungarmi se non in modo molto generale, in questa sede, rinviando, per una visione più completa, allo studio pubblicato da P. Mander, Antecedents in the Cuneiform Literature  of the Attis tradition in Late Antiquity, Journal of Ancient Near Eastern Religions 1 (2001), 100-149. Giuliano espone una variante molto particolare di un mito sulla dea madre Cibele e sul semi-dio Attis e ne fornisce l’interpretazione in una chiave neo-platonica particolare. Cibele è una dea celeste, madre degli dèi, e Attis è il semi-dio (semi-dio in quanto non immutabile come gli dèi) che ella ama; esposto al fiume Gallo (che Giuliano interpreta come la Via Lattea, sotto la quale scorre il mondo del divenire), Attis, che reca un berretto stellato, segno della sua origine divina, saltando e ballando, si spinge fino alle estreme regioni inferiori, come un raggio di sole. Il limite estremo da lui raggiunto è la grotta della ninfa, che Giuliano definisce limite estremo della materia. Onde impedire che Attis superi questo limite estremo, il Fuoco del Leone, attivato da Helios, il sole, mutila il semi-dio, evirandolo, bloccando così una generazine senza fine delle forme, che rimangono, infatti, in numero limitato.
Attis è chiaramente l’elemento intermedio, che Giuliano definisce come “la sostanza dell'intelligenza feconda e creatrice che genera ogni cosa fino all'ultimo livello della materia, e che contiene in sé insieme tutte le ragioni e tutte le cause delle forme materiali”: un demiurgo che dà forma alle realtà immerse nel mondo della generazione e del divenire. In Giuliano appare dominante il tema della Provvidenza (§ 6), ampliato appunto, nell'indicazione della funzione di Attis, che viene detto logos (§ 19), principio ordinatore del cosmo; secondo le parole di Giuliano stesso, la funzione del logos "ha reso così bella questa sozzura (il mondo della materia) da trasformarla in qualcosa che nessuna arte o intelligenza umana saprebbe imitare".

Alla luce delle speculazioni di Giuliano su questo mito, acquisisce nuovo significato il mito riferito nel complesso dei canti sumerici di Inana e Dumuzi. Come prima cosa, si deve rilevare il ruolo di Inana nella regalità, poiché, in un periodo di alcuni secoli, a cavallo del III e del II millennio a. C., ella si congiungeva – secondo modalità a noi ignote – con il sovrano, facendo quindi discendere su di esso la forza divina che ella attingeva in cielo. In alcuni canti il sovrano durante queste nozze sacre (hieros gamos) si identificava con Dumuzi. Il sovrano che riceveva la forza sacra attraverso la dea, l’avrebbe poi irrorata sul suo regno, che quindi, essendo nella grazia degli dèi, sarebbe stato prospero e sereno.
La dea Inana ha come caratteristica quella di unire domini opposti: come nel rito delle nozze sacre unisce il mondo terreno – il cui apice è il re – con quello divino, così ella, attraverso il fascino, unisce i generi opposti. I suoi sacerdoti, maschi, erano vestiti da femmine, per simboleggiare la funzione di “ponte” della dea; ella stessa era rappresentata ed elogiata, in canti sacri, come prostituta (affacciata alla finestra, per attrarre i passanti), e a lei facevano riferimento le ierodule del tempio. Queste peculiarità si riconoscono nell’aspetto dell’astro del pianeta Venere, che o precede il sole che sorge, o segue quello tramontato, unendo così, in un luminosissimo punto, giorno e notte.
Ma Inana corrisponde anche alla ninfa, in quanto potenza di attrazione che opera la generazione continua delle forme.
Possiamo così delineare un parallelo:

Come Cibele, Inana è 1. Madre degli dèi, 2. Regina del cielo, 3. Esercita una grande potenza.
Come la ninfa, Inana 1. È dotata di fascino irresistibile, 2.  È connessa ad un luogo chiuso, il Palazzo o il Carcere (riferibili al grembo), cui la caverna della ninfa è paragonabile: questo punto è complesso, ma le prove ci sono. La prigione delle forme matetiali corre immediatamente alla mente.

Come Attis, Dumuzi 1. Mostra natura celeste (berretto stellato di Attis), 2. È anch’egli semi-divino, 3. Ha un carattere mediano, come si evionce, in particolare ma non solamente, dall’impersonificazione che ne fanno i re nelle Nozze sacre, 4. Seppur rapito dai demoni, compie comunque una catabasi agli inferi, 5. Il sole interviene con ruolo salvifico sia nei confronti di Attis che di Dumuzi.

Questi sono i punti di contatto principali, ma quelli meno appariscenti sono spesso ancor più significativi.

In conclusione, appaiono due assi discendenti che si possono porre in paralleo, e quello Cibele – Attis – Ninfa costituisce un chiaro sistema simbolico cosmologico, come Giuliano dimostra.

Ecco i due assi in prospetto:
Inana > Cibele > Cielo immoto dell’Assoluto
Inana > Ninfa > Seduzione e attrazione
Dumuzi > Attis > Portatore della bellezza celeste nel mondo delle forme

in cui Inana è sia la parte del cielo degli dèi che la seduzione della ninfa, e Dumuzi, nella forma del re che reca l’abbondanza al suo regno, corrisponde ad Attis che rende bello il regno della materia.

Ora, l’interpretazione metafisica che Giuliano attribuisce alla variante del mito di Cibele ed Attis a lui nota (forse conosciuta in quanto, essendo l’imperatore, era a capo di numerosi collegi sacerdotali) si estende benissimo ai canti di amore e morte sumerici di Inana e Dumuzi, rendendo ragione di numerosi epiteti e dettagli descrittivi, che non è possibile riferire in questa sede.

Esempio 2. Nin-hursanga

Ancora in questa direzione, è da citare la figura della dea Hekate negli Oracula Chaldaica. Hekate nella mitologia greca è la custode delle soglie, con tratti inquietanti, in quanto, in tale veste – rispetto alla soglia degli inferi –, è patrona della magia e dei fantasmi.
Ma negli Oracoli Caldaici, in cui è propulsiva l’ispirazione platonica del Timeo, Hekate è l’Anima Mundi, ovvero l’elemento che dall’Intelletto Universale si spinge fino alla materia, cui infonde vita. Essa si differenzia negli individui, pur restando sempre una, posta al di sopra del divenire degli individui stessi. Una funzione intermedia, quindi, che rende ragione della scelta della guardiana delle soglie della mitologia greca per impersonare questo concetto platonico ripreso negli Oracoli Caldaici, per quei pochi frammenti che ci sono pervenuti.

Uno dei più importanti poemi sumerici e babilonesi è quello chiamato, dalle parole con cui inizia Re, il cui splendore è maestoso, denominato Lugal-e dagli assiriologi (e così qui lo chiameremo), racconta in oltre 750 versi le gesta del dio guerriero Ninurta, figlio del sovrano degli dèi e re dell’universo Enlil, che affronta e sconfigge il demone Asakku, che si era sollevato contro Enlil, alla testa di un esercito di pietre ribelli. Lo scontro è durissimo, ma alla fine Ninurta riesce vincitore e dà ordine al cosmo, facendo fluire le acque del Tigri in modo da rendere possibile per gli uomini l’agricoltura. Al termine di questa sua ultima impresa, vede sopraggiungere sua madre Ninlil, in ansia per il figlio. Appena la scorge, Ninurta le dedica il cosmo, che aveva appena ordinato, e le attribuisce il nome di Nin-hursanga, “Signora delle colline”, ovvero dei luoghi in cui, in Mesopotamia, sbocciva spontanea la vita selvatica: ricordaimo che questa non era solo appannaggio di animali e piante, ma anche di minerali.
Le espressioni con cui Ninurta onora sua madre sono fortemente simili, non solo contenutisticamente, agli epiteti con cui è fregiata Hekate negli Oracula Chaldaica.
Anche in questo caso è chiaro che Ninlil – Nin-hursanga è la versione sumerica dell’Anima mundi, e che quindi al racconto del poema Lugal-e dev’esser attribuita un’interpretazione generale metafisica, i cui contorni sto appena cominciando a scorgere. Valga per tutte, l’osservazione di uno schema triadico in entrambe le opere:

Padre (Primo Fuoco) à Enlil  à Principio immoto
Hekate à Ninlil à Animatrice del Cosmo, intermedia tra Padre e “Secondo Fuoco”. Chiamata “grembo”, e forse il segno Ω che appare nelle raffigurazioni di Nin-hursanga è un utero.
Figlio (Secondo Padre) à Ninurta à forza combattente del Padre (Secondo Fuoco)
schema che è base di partenza di una rappresentazione metafisica. Nel Lugal-e è paragonato due volte ad una tempesta travolgente

È sperabile che questo filone di ricerca continui, riconsiderando la lettura della mitologia sumerico-babilonese attraverso le opere della Tarda Antichità, al fine di raggiungere un’interpretazione completa di quella mitologia come rappresentazione metafisica in linguaggio figurato.

 

 

Back Home
 

 

 

 

 

Copyright © 2007 © - Rito Antico e Primitivo di Memphis e Misraïm - Tutti i diritti riservati
Tutte le aree di questo sito sono di pubblico dominio, incluse le pagine pubblicate ad uso dei Liberi Muratori.
Nessuna parte dello stesso può essere riprodotta, archiviata o trasmessa, in qualsiasi forma, senza il preventivo permesso scritto dell' A:.P:.R:.M:.M:.