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(L. Albanese)Cristina di Svezia e la Porta alchemico-Ermetica di Roma

Cristina di Svezia e la Porta Alchemico-Ermetica di Roma

di Luciano Albanese

Il soggiorno romano di Cristina di Svezia si divide in tre periodi. Il primo ingresso a Roma avviene ufficialmente il 23 dicembre del 1655 dalla Porta del Popolo, sotto l’arco di trionfo allestito per l’occasione dal Bernini, ma il soggiorno dura poco, perché Cristina riparte il 19 luglio del ’56. Il secondo periodo, più lungo, va dal giugno 1662 al maggio 1666. Il terzo periodo, infine, va dal 1668 alla sua morte, avvenuta nell’aprile del 1689. La tesi di Bildt, secondo la quale Cristina non si sarebbe occupata materialmente di alchimia prima del 1662 – cioè prima del secondo soggiorno romano – appare ragionevole, considerata la brevità del primo soggiorno. Occorre tenere presente, tuttavia, in primo luogo che gli interessi di Cristina per i testi alchemici sono di vecchia data, e sono parte di un interesse più generale per la cultura antica e in particolare per la prisca philosophia. Tale interesse, stimolato soprattutto dai suoi rapporti personali con Isaac Vossius, fu un motivo di attrito con Cartesio, che se ne lamentò con Elisabetta in una lettera del 9 ottobre 1649, scrivendo che Cristina «andava raccattando dappertutto libri antichi». Cristina, da parte sua, non vedeva nulla di nuovo nella filosofia cartesiana, attribuendo tale carattere piuttosto alla sua geometria analitica. In realtà nella formazione di Cristina, come ha dimostrato Susanna Åkermann, occupano un posto considerevole anche i testi fondamentali della moderna letteratura libertina – che tuttavia danno notoriamente largo spazio alla letteratura classica e allo scetticismo antico, in particolare quello di Sesto Empirico. La presenza di testi scettici accanto a testi alchemici – vale a dire di testi non dogmatici o antidogmatici accanto a testi dogmatici, che fanno riferimento ad una saggezza antichissima, può apparire paradossale, ma occorre ricordare che anche in un autore del livello di Cornelio Agrippa di Nettesheim si registra lo stesso fenomeno, essendo egli autore, insieme, del De occulta philosophia e del De incertitudine et vanitate scientiarum. In realtà nel XVII secolo si scontrano fra di loro due diverse concezioni della scienza. La prima, quella di Cartesio, va in cerca di regole generali e scarta sistematicamente ogni eccezione. La seconda, quella di Agrippa o di Campanella, si fonda esclusivamente sulle eccezioni e sui casi particolari, ed è facile capire, da questo punto di vista, come possa stringere un’alleanza con lo scetticismo, che usa sistematicamente le eccezioni e la letteratura sui mirabilia per contrastare il dogmatismo aristotelico-scolastico. Nel contrasto fra Cartesio e Cristina di Svezia, quindi, traspare qualcosa di emblematico, che sfocerà nel moderno problema della cosiddetta demarcazione fra scienza e metafisica.
In secondo luogo bisogna ricordare che la presenza del Marchese Massimiliano Palombara nell’entourage della regina data fin dal 1655. Tutto lascia pensare, quindi, che la regina abbia affidato al Palombara fin dal suo primo soggiorno romano compiti di tipo operativo, che troveranno la più appariscente espressione simbolica nella Porta alchemica del 1680, oggetto di questa giornata di studi. Gli interessi diretti di Cristina per l’alchimia si manifestano visibilmente, comunque, nel corso del secondo soggiorno romano. Nel 1665 la regina convoca ripetutamente Ole Borch a Palazzo Riario per apprendere dalla sua viva voce i segreti dell’alchimia. Ole Borch darà alla luce nel 1668 il trattato De ortu et progressu chemiae, che fa risalire le origini della stessa al mitico Ermete Trismegisto, e quindi alla antica sapienza egizia. Una tesi questa, ripresa dall’Oedipus chimicus di Becher, da John Dee e da quasi tutti gli autori di testi alchemici. La fondatezza di questa tesi è suffragata dalle ricerche di Festugière, in particolare il I volume della Révélation, che tra l’altro ha indicato le fonti ermetiche di Zosimo.Occorre ricordare, a tale proposito, che nel 1653 Cristina aveva fondato l’ordine ermetico dell’Amaranto, e che tra le sue letture figurano i Misteri egiziani di Giamblico. Nel 1666, ancora, Cristina prende contatto col chimico paracelsiano Johann Rudolph Glauber. Glauber individuava i tre principi della chimica nel sale, nello zolfo e nel mercurio, e considerava il fuoco – ovvero il sole – e il sale due divinità. Di un certo interesse è per noi la figura contenuta a p. 13 dell’edizione del 1660 dell’Arca Thesaurus Opulentia, un quadrato inscritto in un cerchio che porta la scritta In Sole et Sale Omnia. Tali figure geometriche, infatti, sono presenti anche nella Porta alchemica. A conferma dei suoi interessi per l’alchimia, va ricordato anche che fra le carte di Cristina di Svezia si nota la presenza di un manoscritto intitolato Il laboratorio filosofico – Paradossi Chimici, databile intorno al 1674, che sembra essere una copia con annotazioni di un manuale alchemico non meglio identificato. L’interesse di Cristina di Svezia per l’alchimia risulta essere dunque un interesse costante, e tale interesse ebbe certamente modo di manifestarsi liberamente e concretamente soprattutto nell’ultimo periodo del soggiorno romano, vale a dire quando, ormai libera dalle preoccupazioni politiche che l’avevano spinta a girovagare il lungo e in largo per l’Europa, poteva dedicarsi anima e corpo ad una attività così congeniale.

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La costruzione della Porta Magica o Porta Alchemica risale verosimilmente al 1680. Oggi si trova all’interno del giardino di p.zza Vittorio, di fronte ai cosiddetti ‘Trofei di Mario’, in direzione nord-est, lungo l’antico perimetro di Villa Palombara. Venne qui collocata intorno al 1888, unica sopravvissuta alla demolizione della villa operata nel 1873 in seguito ai lavori di costruzione del nuovo quartiere Esquilino. Fatta giustizia omai delle leggende intorno alla sua genesi (la più nota di queste è che la porta commemorasse un esperimento alchemico grazie al quale un misterioso pellegrino ospite della villa stessa aveva realmente prodotto dell’oro), essa, insieme alle iscrizioni, risulta essere interamente opera del Marchese Palombara, che sentendosi vicino alla morte, avvenuta nello stesso anno (1680), volle edificarla come se fosse un suo visibile testamento spirituale. Quello che resta da accertare, semmai, è il ruolo che, direttamente o indirettamente, può aver avuto Cristina di Svezia nel suo concepimento e nella sua costruzione. La soluzione del problema, tuttavia, può essere facilitata quando si ricordi che la regina, dati i suoi stretti rapporti personali con il Marchese, che continuarono anche dopo la morte di questi in favore della sua famiglia (espressamene affidata alla generosità di Cristina nel testamento del Palombara), non poteva non essere a conoscenza della sua intenzione di lasciare un segno tangibile del comune interesse per la scienza alchemica.
Prima di procedere ad un esame dettagliato dei simboli e delle iscrizioni della porta alchemica vorrei richiamare l’attenzione sul simbolismo stesso della porta. Il simbolo della porta è di vecchia data. Per tacere d’altro, esso compare nella mitologia dei misteri di Mithra e particolarmente in uno dei mitrei di Ostia e in un passo di Celso (VI 22) sul quale tra breve dovrò tornare. Compare inoltre in Picatrix (un’opera molto diffusa, di cui Cristina possedeva addirittura un manoscritto), nella descrizione della mitica città di Adocentyn, la città dalle quattro porte (IV 3), tornata in auge presso i Rosacroce. Ma in tempi più vicini al nostro oggetto di studio esso è presente nell’Atalanta fugiens di Maier (un testo al quale, come vedremo, sia le iscrizioni della porta che le opere letterarie del Palombara fanno spesso un implicito o esplicito riferimento). L’emblema n. XXVII dell’Atalanta fugiens mostra infatti una porta che introduce nel roseto filosofico (Rosarium Philosophicum): per aprire questa porta occorre una chiave, ma non tutti sono degni di possederla. Non a caso si parla di un roseto, dal momento che l’opera è notoriamente un importante documento rosacrociano, e anche sul rapporto fra Cristina, Palombara e i rosacroce dovremo tornare. Passerò ora all’esame delle strutture della porta.

L’architrave della porta

L’architrave è sormontato da un fregio ripreso interamente dal frontespizio dell’Aureum Seculum Redivivum di Henricus Madathanus (1621: di nuovo un testo legato ai rosacroce). Il fregio del Palombara e il frontespizio del libro di Madathanus recano le medesime scritte: Tria sunt mirabilia deus et homo mater et virgo trinus et unum nel circolo esterno e Centrum in trigono centri nel circolo interno. Il circolo interno ha una croce issata in cima che fa pensare immediatamente alla croce cristiana ma che figura anche fra i caratteri magici del Sole nel De occulta philosophia di Agrippa (II 51). Questo cerchio interno sormontato dalla croce è sovrapposto allo scudo di Davide o sigillo di Salomone, entrato ufficialmente in uso a Praga, anche come segno cabalistico, fin dal 1354 e diffuso in seguito nel ‘600 e nel ‘700 attraverso la Moravia in Austria, nella Germania meridionale e in Olanda. Entrambi i simboli risultano quindi interni al cerchio più grande, che nel frontespizio di Madathanus è tuttavia inscritto in un quadrato, che è invece scomparso nel fregio del Palombara. Oltre che al testo di Madathanus, da cui sono esplicitamente tratti, il fregio e la seconda iscrizione rinviano anche all’emblema XXI dell’Atalanta fugiens.

L’architrave si compone di due scritte: una in ebraico, Ruach elhoim, Spirito del Signore [Elhoim è plurale però], che conferma un interesse per la spiritualità ebraica già rilevabile dalla presenza del sigillo di Salomone. I rapporti della stessa Cristina di Svezia con l’ebraismo sono noti e ben documentati dalla Åkermann nel cap. X del libro del 1991. Sono sia rapporti personali, sia tramite Vossius, addetto come sempre al reperimento di manoscritti originali. Cristina, che conosceva l’ebraico, nel 1686 intervenne personalmente a favore degli ebrei del ghetto di Roma, ed aveva sempre incoraggiato i programmi di pacificazione fra le due fedi. Naturalmente i suoi interessi culturali privilegiavano il misticismo ebraico e la Kabbala.
La seconda scritta, collocata sotto la scritta in ebraico, suona: Horti magici ingressum Hesperius custodit draco et sine alcide colchicas delicias non gustasset iason. [Il drago esperio custodisce l’ingresso del magico giardino e senza Ercole Giasone non avrebbe gustato le delizie della Colchide] Il riferimento al vello d’oro compariva in un’altra epigrafe, oggi perduta, situata sul portone di Villa Palombara: Villae ianuam tranando recludens Iason obtinet locuples vellus Medeae. [Oltrepassando la porta della villa lo scopritore Giasone ottiene il ricco vello di Medea] Le iniziali delle nove parole generavano un acrostico, Vitriolum, che significa Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem Veram Medicinam. Come ha suggerito Mino Gabriele, si tratta di temi ricorrenti nei testi paracelsiani del ‘500 e successivamente nella letteratura dei rosacroce. Peraltro il tema del vello d’oro – diffuso nella letteratura alchemica per ovvie ragioni – ricorre anche nell’Atalanta fugiens nel commento agli emblemi I, XIV e XXV. Ma è presente soprattutto nella Bugia, la raccolta di versi alchemici indirizzati a Cristina di Svezia. Nell’interpretazione di Gabriele il tema del vello d’oro ha un significato più ampio di quello alchemico – ma non incompatibile con questo - ed allude al veicolo dell’anima, la veste splendente di cui si parla anche nell’Inno della perla, perduta in seguito alla discesa dell’anima nel corpo e riacquistata dopo la liberazione dal corpo e la risalita verso il regno del Padre.

Gli stipiti e la soglia

Sugli stipiti e sulla soglia sono impressi i simboli tradizionali dei sette pianeti, ciascuno accompagnato da una iscrizione. L’ordine di lettura degli stessi che io suggerisco presuppone che il Palombara, forse su ispirazione della stessa Cristina, abbia adottato l’ordinamento planetario definito «egiziano», il che confermerebbe la natura ermetica del manufatto (l’unica differenza rilevabile è il mutamento di posto tra Venere e Mercurio). Partendo quindi dalla soglia e risalendo lungo gli stipiti (e leggendo da destra a sinistra) abbiamo: Luna, Sole, Mercurio, Venere, Marte, Giove Saturno. Questo percorso tuttavia non è il percorso alchemico suggerito dalle corrispondenze tra pianeti e metalli, ovvero è il classico percorso alchemico rovesciato, perché partiremmo dall’Argento e dall’Oro come già acquisiti, risalendo a ritroso la scala dei metalli da cui sono stati ricavati, per arrivare infine al Piombo cioè al Nero, la materia prima.

Pianeti e metalli

Credo sia utile soffermarsi un attimo sulle corrispondenze fra metalli e pianeti. Occorre precisare che esse sono variabili. Celso, un autore medioplatonico del II sec., fornisce la seguente tavola di corrispondenze, che egli collega alla «scala dalle sette porte» simbolo del percorso iniziatico dei misteri di Mithra. Secondo la sua descrizione (VI 22) avremmo una sequenza Saturno-Piombo, Venere-Stagno, Giove-Bronzo, Mercurio-Ferro, Marte-Mixtum di metalli, Luna-Argento, Sole-Oro. [Tale sequenza planetaria ha suscitato infiniti dubbi, perché non corrisponde a nessuna delle due classiche sequenze note, quella egizia e quella caldaica, e purtroppo nemmeno a quella mitriaca, quale risulta dai mitrei di S. Prisca a Roma e Felicissimo a Ostia. Essa è puramente e semplicemente la sequenza della nostra settimana, che però nella versione di Celso non si può definire ‘planetaria’ perché la settimana definita ufficialmente planetaria deriva – attraverso un computo complesso che qui non è caso di esaminare – dal sistema planetario caldaico col Sole al centro dei pianeti (Luna Mercurio Venere Sole Marte Giove Saturno)]. Agrippa di Nettesheim, nel De occulta philosophia  (I 23 - 28) fornisce una diversa tavola di corrispondenze: Sole-Oro, Luna-Argento, Saturno-Piombo e Oro, Giove-Stagno (Argento e Oro), Marte-Rame, Venere-Argento e Rame. Le corrispondenze suggerite da Mino Gabriele concordano in parte con quelle di Agrippa, e sono: Saturno-Piombo, Giove-Rame, Marte-Ferro, Venere-Rame, Mercurio-Mercurio, Sole-Oro, Luna-Argento.
Una lettura in chiave alchemica della porta richiede quindi di cominciare dall’alto. Tuttavia è possibile anche una lettura filosofica della porta, che in questo caso alluderebbe al viaggio di risalita dell’anima attraverso le sfere planetarie. Di fatto nella letteratura ermetica esistono entrambi questi percorsi. Nei frammenti alchemici che vanno sotto il nome di Ermete Trismegisto abbiamo infatti il classico passaggio dal Nero del Piombo di Saturno – la materia prima – al Rame, Ferro e Stagno per opera del fuoco, e infine, attraverso il Mercurio, arriviamo all’Argento e all’Oro, Luna e Sole. Tuttavia i trattati canonici del Corpus Hermeticum, in particolare il I e più importante insieme all’ Asclepius, il Poimandres, descrive il viaggio di discesa e risalita dell’anima attraverso le sfere planetarie (tema comune a tutta la cultura ellenistica, in particolare alla gnosi, sia pagana che cristiana). Questo trattato presenta significativi punti di contatto col testo biblico della Genesi (vedi l’ormai classico testo di Dodd, La Bibbia e i greci), e conferma la sintonia tra temi ermetici e temi cabalistici suggerita dalla presenza dei simboli ebraici sulla porta. Il Poimandres racconta infatti la genesi del cosmo, la creazione del primo essere androgino [questo tema, che ha una valenza alchemica e filosofica insieme, è presente nelle rime del Palombara ed era un’ossessione costante della stessa Cristina] e la sua  caduta nella materia, e quindi la sua successiva risalita attraverso le sfere planetarie, grazie alla quale deposita tutte le scorie e si presenta nudo davanti al «guardiano della porta», lo stesso Poimandres [di nuovo il tema della porta], che lo ammette nell’ogdoade alla presenza del Padre. Questo secondo percorso filosofico parte da Saturno e torna a Saturno, il pianeta più distante dalla terra e più vicino al luogo sopraceleste oltre le stelle fisse. Come è noto Saturno è anche il simbolo della felice età dell’oro, come si legge in Esiodo e poi in Ovidio e Virgilio, ma anche in un testo pahlavi  del IX sec., che riporta materiale avestico più antico di migliaia di anni (Denkard IX, Nask 1, 7). Il secondo percorso ascendente, che parte dalla Luna, culmina dunque nel pianeta simbolo dell’età dell’oro, che non a caso le dottrine mitriache assimilavano al Sole e nominavano pianeta tutelare dell’ultimo grado della scala iniziatica. Età dell’oro, peraltro, esplicitamente richiamata dal Palombara, che usa il frontespizio dell’Aureum Seculum Redivivum come simbolo della porta nel suo complesso.

Le iscrizioni relative ai simboli dei pianeti

Passo ora all’esame delle iscrizioni accanto a ciascun pianeta seguendo il percorso alchemico e alcuni suggerimenti di Mino Gabriele. Il tema comune alle iscrizione è il tema centrale dell’alchimia, il conseguimento della trasformazione dei metalli vili in Argento e Oro attraverso passaggi successivi dal Nero primordiale alla bianchezza e lucentezza dei metalli preziosi.
Iniziamo quindi dalla sfera di Saturno. Quando in tua domo nigri corvi parturient albas columbas tunc vocaberis sapiens. [Quando nella tua casa i neri corvi partoriranno bianche colombe allora sarai chiamato sapiente] Le parti volatili della materia combusta nel forno si innalzano lasciando le scorie sul fondo del vaso. Annuncia lo scopo finale del percorso alchemico, il passaggio successivo dal Nero al Bianco. Ritroveremo questo motivo nella scritta che accompagna il simbolo di Mercurio. Esso è presente anche in componimento del Palombara (Bugia 179, «Dal Corvo la Colomba vedrai nascere / Qual mirerai vestirsi alfin di porpora»). Un’allusione al tema fondamentale dell’alchimia è presente nello stesso stemma dei Palombara, una colomba bianca su fondo azzurro.
Giove. Diameter sphaerae thau circuli crux orbis non orbis prosunt. [Il diametro della sfera, il tau della circonferenza, la croce del cerchio non giovano ai ciechi] Si ricavano tre figure geometriche, cerchio, triangolo e quadrato, presenti nel frontespizio di Madathanus, nell’emblema XXI di Maier, e soprattutto nel fregio sovrastante l’architrave della porta. Esse non giovano ai ciechi, vale a dire a chi non ha nemmeno iniziato questo percorso.
Sfera di Marte. Qui scit comburere aqua et lavare igne facit de terra caelum et de caelo terram petrosam. [chi sa bruciare con l’acqua e lavare col fuoco fa della terra il cieloe del cielo terra preziosa] È il tema della conciliazione degli opposti, che sembra ripreso, secondo Mino Gabriele, dalla Tabula Smaragdina, alla quale peraltro si allude testualmente anche nel commento al I emblema di Maier. Lo stesso testo di Maier tratta il tema della conciliazione degli opposti nell’emblema XV.
Sfera di Venere. Si feceris volare terram super caput tuum eius pennis aquas torrentum convertes in petram. [Se avrai fatto volare la terra sopra la tua testacon le sue penne convertirai in pietra le acque dei torrenti] Anche questa sembra un’eco dell’emblema XXXVI dell’Atalanta fugiens (Lapis projectus est in terras, & in montibus exaltatus, & in aëre habitat, & in flumine pascitur, id est, Mercurius). Le parti volatili della materia, grazie al fuoco, salgono in alto, mentre vengono fissate le parti mercuriali più sottili.
Accanto a Mercurio si legge: Azot et ignis dealbando latonam veniet sine veste diana. [azot e fuoco imbiancando latona Diana viene senza veste] Il riferimento all’emblema XI dell’Atalanta fugiens (Dealbate Latonam & rumpite libros) questa volta è esplicito, perché torna pressoché identico in una canzone del Palombara che è un lungo commento all’invito Dealbate Latonam & frangite libros [178 sgg.]. Il mercurio e il fuoco fanno diventare bianca ovvero purificano la materia oscura. Il motivo è centrale, e non a caso era compariva nella sfera di Saturno (i corvi neri diventano bianche colombe).
Passiamo alla sfera del Sole. Filius noster mortuus vivit rex ab igne redit et coniugio gaudet occulto. [nostro figlio morto vive. Il re torna dal fuoco e gode dell’occulto connubio] Il motivo del re che risorge dal fuoco è presente nel XXIV emblema dell’Atalanta fugiens: il connubio è quello dello zolfo col mercurio, come risulta dal XXXIII emblema, che svolge di nuovo il motivo del fuoco che vivifica e fortifica, in relazione al mito della Fenice e ancora nell’emblema XXXV in relazione al mito di Achille e Teti. Questa sfera dovrebbe essere quella conclusiva, perché abbiamo trovato l’oro, ma resta una sfera sottostante, quella della Luna, che in termini alchemici corrisponde all’Argento. Mino Gabriele interpreta questo segno come il simbolo della monade, e legge il segno del Sole come Sole e Luna insieme, cioè come un composto di Oro e Argento. Ma io ritengo che il simbolo sulla soglia non sia la Monade (che peraltro è completamente diverso dal simbolo della monade di John Dee, la Monade geroglifica), ma semplicemente la Luna, per il motivo banale che i pianeti sono sette, e sette sono i segni.
Nella soglia, tutto intorno al segno della Luna, si leggono due iscrizioni, La prima è una iscrizione palindroma che suona Si sedes non is, ovvero «se siedi non vai» e «se non siedi vai». L’invito è a varcare la soglia, se vuoi iniziare il viaggio. La seconda iscrizione sembra ribadire il valore esortativo della prima: Est opus occultum veri sophi aperire terram ut germinet salutem pro populo. [È opera occulta del vero sapiente aprire la terra affinché generi la salvezza del popolo] Il vero sapiente deve intraprendere questo viaggio di salvezza, che salverà se stesso e l’umanità intera. L’esortazione a intraprendere un viaggio, che parte dalla sfera della Luna, la più vicina alla Terra, sembrerebbe suggerire l’idea del ritorno dell’anima nell’empireo, e quindi farebbe pensare ad una prevalenza della lettura filosofica della porta su quella alchemica.

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Resta un ultimo problema da affrontare. La Porta alchemica, sicuramente opera del Palombara, ma altrettanto sicuramente non ignota a o addirittura ispirata da Cristina di Svezia, mostra numerose allusioni a due testi, quello di Maier e quello di Madathanus, che appartengono di fatto e di diritto alla letteratura rosacrociana.. Mino Gabriele ha descritto il Palombara come «un alchimista rosacroce nella Roma controriformista». Un riferimento esplicito ai Rosacroce, in effetti, compare in una delle due stesure della Bugia. Ma esiste anche un secondo riferimento ai Rosacroce, ancora più interessante, in un’altra opera del Palombara, il Ludus Hermeticus. Esso ha tutta l’aria di un appello ad Alessandro VII perché non ostacoli l’attività degli alchimisti rosacrociani a Roma. (Ma spero in Alessandro che la rosa /Rapita, facci ch’a noi venghi resa / Che sbandendo del fato ogn’altra rissa / Risplenderà la porpora più rossa / E la croce che porta stretta in pugno / Sia del sperato ben securo pegno).
Il Palombara sapeva bene che la dottrina dei Rosacroce era di chiara marca protestante, e che nei manifesti rosacrociani, la Fama e la Confessio, il Papa di Roma veniva additato come l’Anticristo. Non a caso la dottrina rosacrociana era stata attaccata duramente da Mersenne e da Naudé in Francia. E ovviamente la stessa Cristina era a conoscenza dei rischi che correva proteggendo e collaborando di fatto con un alchimista rosacrociano. E tuttavia è ipotizzabile che sia lei che il Palombara perseguissero un programma di riconciliazione universale delle tre fedi, ebraismo, cattolicesimo e protestantesimo all’insegna di un comune denominatore cabalistico-ermetico-alchemico. L’esperienza fatta nel corso delle trattative per la pace di Westfalia dovevano aver convinto Cristina di Svezia che tale riconciliazione non era poi una missione impossibile. D’altra parte il suo paese era stato il campione della causa protestante – e indirettamente della causa rosacrociana – nel corso della Guerra dei Trent’anni, e anche se era diventata cattolica, non era diventata certo meno spregiudicata e disponibile verso una dottrina, come quella dei Rosacroce, che faceva largo spazio all’alchimia e alla prisca philosophia. Di fatto, la filosofia rosacrociana  resta uno dei supporti culturali della Porta magica insieme all’ermetismo. E poiché le ipotesi di una derivazione della Massoneria dai Rosacroce sembrano a tutt’oggi attendibili, credo che la decisione di dedicare questa giornata di studi a Cristina di Svezia si confermi una scelta ponderata.

La Magia Nera nelle Metamorfosi di Apuleio

di Luciano Albanese

Apuleio subì un processo per magia, verosimilmente, fra il 158 e il 159 d.C., quando era ancora imperatore Antonino Pio. Il processo si svolse a Sabrata, davanti al proconsole Claudio Massimo, il governatore della provincia d’Africa. L’accusa era grave, perché riguardava la violazione della Lex Cornelia de sicariis et veneficis, promulgata da Silla nell’81 a.C. Apuleio era accusato dai parenti di una ricca vedova, Pudentilla, di averla indotta a sposarlo facendo ricorso ad arti magiche particolarmente odiose. Apuleio venne assolto da tale accusa, ma la fama di mago gli rimase, acuita probabilmente dalla pubblicazione delle Metamorfosi, in cui gli episodi di magia sono frequenti e si innestano nella trama principale del romanzo.
Possediamo interamente l’orazione letta da Apuleio in sua difesa, e da una lettura attenta – utilissima, ancora oggi, la sottile analisi condotta da Adam Abt – dobbiamo concludere che alcune delle accuse mosse ad Apuleio non erano del tutto infondate. Tre accuse, in particolare, meritano attenzione: quella di aver utilizzato tre specie di pesci come coadiuvanti in operazioni di magia (solere pisces etiam ad magicas potestates adiutare; Apologia, XXXII), quella di aver utilizzato dei fanciulli per esperimenti di idromanzia, e quella di praticare la necromanzia. I pesci in questione erano il lepus marinus, il veretillum e la virginal (Apologia, XXXIII-XXXIV). Il primo pesce, una lumaca di mare, era velenosissimo, e lo stesso Nerone, secondo Filostrato, se ne era servito, mischiato ad altri frutti di mare, per sbarazzarsi dei suoi nemici. Sezionare tale pesce, secondo l’accusa, poteva servire solo ad estrarne il veleno per scopi poco nobili. Per quanto riguarda gli altri due pesci, essi portavano i nomi degli organi sessuali, ed era diffusa l’idea che la loro somministrazione fosse un potente afrodisiaco. In sostanza Apuleio, sulla base di questi reperti, poteva essere accusato di magia venefica e di magia erotica. Apuleio si difese dicendo che egli aveva sezionato questi e molti altri pesci mentre scriveva – come già avevano fatto Aristotele, Teofrasto e molti filosofi platonici – i suoi trattati di storia naturale, e in particolare un trattato sui pesci (queste opere di Apuleio sono perdute). Occorre notare, tuttavia, che Apuleio si dilunga per troppo tempo ad illustrare la tesi difensiva, e la sensazione è che gli avversari avessero toccato un nervo scoperto.
La seconda accusa era quella di aver ‘incantato’ un puer servendosi di un altare e di una lucerna: il fanciullo era caduto a terra tramortito, e successivamente si era risvegliato senza ricordare nulla. (occorre rilevare che un analogo procedimento di lychnomanzia è descritto nei papiri magici greci di Preisendanz [PGM VII 17]).Apuleio respinge tale accusa in modo molto sottile, adoperando argomenti di diritto e di fatto. In primo luogo, aggiunge che un’operazione del genere ha senso solo a scopo divinatorio, ma che in tal caso egli si troverebbe in compagnia di personaggi illustri, che nessuno accuserebbe di arti magiche proibite. Lo stesso Varrone riferisce di un episodio di divinazione per idromanzia, protagonista un puer (che evidentemente agiva per incarico ufficiale di Varrone stesso), durante la seconda guerra mitridatica. Ma lo stesso Nigidio Figulo aveva incantato un puer che, in stato di trance, aveva indicato il luogo in cui alcuni ladri avevano sepolto una borsa di denaro. Non contento di ciò, Apuleio giunge a dare un fondamento filosofico alla pratica stessa, utilizzando la dottrina platonica dell’immortalità dell’anima. L’anima, in particolare se pura come quella di un fanciullo, quando viene indotta con mezzi artificiali ad uscire dal proprio corpo, riacquista la sua vera natura, immortale e divina, e quindi acquisisce una conoscenza piena della realtà, passata, presente e futura.
Di fatto, tuttavia, il puer in questione, il cui nome è Tallo, non era caduto di fronte ad Apuleio in seguito ad un incantesimo, ma perché affetto da morbus comitalis, cioè da epilessia, della qual cosa potevano testimoniare tutti coloro che lo conoscevano.
La terza accusa era quella di usare l’immagine scheletrica di un basileus, un re o principe delle tenebre, per attività necromantiche (Apologia, LXI). Apuleio respinge tale accusa mostrando al proconsole Claudio Massimo l’immagine stessa, che era in realtà quella di Mercurio, e affermando che l’unico re che un filosofo platonico possa venerare è il ‘primo re’ della II Epistola di Platone, vale a dire quella divinità assolutamente trascendente di cui Apuleio stesso parla in altre opere e che diventerà l’Uno di Plotino.
Anche in questo caso due considerazioni si impongono. La prima, che il Mercurio in questione poteva essere, come suggerisce Garth Fowden, Mercurio o Ermete Trismegisto, al quale vengono attribuiti una quantità di scritti, primo fra tutti l’Asclepio, in cui viene dato ampio spazio alla costruzione e animazione delle statue degli dèi, e quindi alla telestica, una delle due branche della teurgia. L’ipotesi è tanto più attendibile, in quanto anche se Apuleio non è il traduttore della versione latina dell’Asclepio (che tuttavia figura tradizionalmente fra le sue opere), i suoi scritti risentono visibilmente della cultura, sia filosofica che magica, dell’ermetismo.
La seconda, che la sollecitudine con cui Apuleio mostra l’immagine in questione a Massimo rivela la preoccupazione, espressa precedentemente (Apologia,XLVII), di essere accusato di magia nera (magia […] occulta non minus quam tetra et horribilis). E in effetti sappiamo dai papiri magici greci che un basileus veniva effettivamente invocato nel corso delle cerimonie come ‘assistente’ del mago (PGM I 163 sgg.). Allo stesso genere di operazioni ‘sospette’ può essere ricondotto il fatto di scrivere o appendere un voto sulla coscia di una statua, che Apuleio presenta come semplice atto di devozione (votum in alicuius statuae femore signasti; Apologia,LIV). In realtà questo gesto poteva servire per stabilire un contatto diretto con la divinità, ovvero la tavoletta votiva poteva addirittura contenere una defixio, una maledizione che la divinità stessa era incaricata di rendere efficace.

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Quello che nel processo resta solo un sospetto, vale a dire la confidenza di Apuleio con la magia nera, diventa realtà nelle Metamorfosi, nel senso che il tema della magia, soprattutto della magia nera o goezia (termine che aveva finito per acquistare un significato esclusivamente negativo, sebbene Platone, ad es., non lo usi in questo senso) costituisce l’asse centrale del romanzo. La magia – magia nera o comunque illecita, tetra et horribilis – trasformerà Lucio in asino, e solo un altro atto di magia, quello che avverrà per intercessione di Iside (dea maga già nell’età faraonica) lo farà tornare uomo. Ma c’è ben altro, perché su questo asse principale si innestano alcuni episodi di vera e propria necromanzia.
Il primo episodio ha per protagonista Meroe, una maga che come Circe ha il potere di trasformare gli esseri umani in animali. Essa è accusata esplicitamente da Socrate, una delle sue vittime, di operare davanti ad una fossa funebre con l’aiuto delle potenze infere. In tal modo aveva serrato nelle proprie case i suoi accusatori, e trasportato l’intera casa di chi aveva organizzato il complotto contro di lei su di un’alta montagna. La stessa Meroe, nottetempo, priverà di tutto il sangue il povero Socrate, che aveva tentato di fuggire, e che il giorno seguente stramazzerà a terra come un sacco vuoto.
Il secondo episodio ha per protagonista Telifrone, un uomo incaricato di custodire e sorvegliare un cadavere, affinché vecchie streghe non lo rubassero per i loro esperimenti (ancora il tema della necromanzia). Mentre credeva di dormire, le streghe gli tagliano il naso e le orecchie. Ma, all’interno del racconto di Telifrone, si situa un ulteriore episodio ancora più interessante. Il morto, che Telifrone aveva avuto l’incarico di sorvegliare, era in realtà stato ucciso dalla moglie. Per provare tale accusa uno dei parenti della vittima, nel corso del funerale, prega un sacerdote di Iside, Zatchias, di resuscitare il morto per ascoltare direttamente da lui la verità.
Sul fatto che Zatchias sia un sacerdote di Iside non sussiste il minimo dubbio. Egli ha il capo rasato, indossa vesti di lino e porta sandali di palma ai piedi. Inoltre nella preghiera a lui rivolta perché acconsenta ad intervenire vengono nominati, non certo a caso, i sacrari di Copto, la città sacra egiziana sulla riva orientale del Nilo, le piene del Nilo, i misteri di Menfi e i sistri di Faro (Met. II 28). Il sacerdote pone dell’erba magica sul petto e sulla bocca del defunto (questo particolare ricorda la nota cerimonia egiziana dell’apertura della bocca), e questi riprende vita, si solleva e inizia a parlare, rivelando la verità sulla sua misera fine e sulla disgrazia toccata a Telifrone, che subito toccandosi naso e orecchie scopre di non averle più, perché le streghe le avevano sostituite con della cera.
L’episodio, che ne ricorda uno analogo e forse più celebre della Farsaglia di Lucano, solleva un problema anche riguardo ai rapporti della stessa Iside e del culto isiaco con la magia: quella di Iside e dei suoi seguaci era solo magia bianca o anche magia nera? Dopo questo episodio la risposta sembrerebbe positiva, e la recente scoperta di tavolette di piombo con defixiones all’interno dell’iseo di Mainz sembrerebbe offrirne un riscontro. Ma su questo punto, rilevante per una valutazione complessiva del romanzo, tornerò più avanti.
Vengo ora all’episodio principale del romanzo, che rappresenta la causa delle disgrazie di Lucio. Giunto ad Ipata, in Tessaglia, Lucio trova ospitalità presso Milone, dove entra subito nelle grazie della domestica, Photis. Tuttavia egli viene messo sull’avviso dalla sua matrigna, Birrena, che la moglie di Milone, Panfile, è una maga che pratica arti illecite e necromantiche.

Essa – dice Birrena preoccupata per la sorte di Lucio – ha fama di essere una maga di prim’ordine e di conoscere tutte le formule magiche con cui si evocano i morti. Soffiando su ramoscelli, pietruzze e altri oggetti insignificanti è capace di trasferire la luce dell’universo stellato nelle profondità del Tartaro e del caos primigenio (Met. II 6).

Le parole di Birrena ricevono conferma, più avanti, da quelle della stessa Photis, la domestica.

Ad essa obbediscono i Mani e servono gli elementi, da essa è turbato il corso degli astri e costretta la volontà dei Numi. […] L’ho udita con queste mie orecchie lanciare minacce persino al Sole: minacciava nientemeno di coprirlo d’oscura caligine e perpetua tenebra (Met. III 15-6).

Le ultime parole di Photis sono estremamente interessanti. La capacità di costringere e incatenare gli dèi al proprio volere era uno dei supposti poteri dell’arte teurgica, e dalla Lettera ad Anebo di Porfirio sappiamo che gli egiziani che la praticavano si dicevano capaci di sconvolgere tutti gli elementi del cielo, arrivavando a minacciare perfino il Sole di fermare il suo corso. Cose simili si possono leggere anche nei frammenti degli Oracoli caldaici, l’opera in esametri composta dai due Giuliani, il Teurgo e il Caldeo, vissuti sotto Marco Aurelio e forse contemporanei di Apuleio. Non a caso un famoso quanto leggendario episodio, riportato da Psello, parla di uno scontro fra Giuliano il Teurgo e Apuleio per ottenere ‘in esclusiva’ i favori del ‘Dio dai sette raggi’, misteriosa divinità caldaica. Tale leggenda sembra avere un fondo di verità: la percezione diffusa che il tema centrale delle Metamorfosi fosse proprio la teurgia, ovvero – nella sua versione meno ‘nobile’ - l’arte di adoperare i poteri degli dèi a proprio vantaggio.
Lucio ha modo di sperimentare immediatamente i poteri di Panfile perché viene coinvolto nell’assassinio di tre otri, in seguito al quale subisce un processo burlesco in una sorta di carnevalata a cui partecipa l’intera città, la festa in onore del Riso. I tre otri, che Lucio aveva scambiato per tre ladri in procinto di assalire la casa di Milone e che aveva affrontato e ucciso, in realtà, come gli confiderà Photis, erano stati effettivamente animati e trasformati in esseri umani dalle arti magiche di Panfile, la moglie di Milone. È interessante, di nuovo, analizzare in dettaglio l’esperimento ascoltando le parole di Photis. Occorre premettere che Panfile aveva chiesto a Photis di procurarle dei capelli, ma che Photis, osteggiata dal barbiere che ne sospettava un uso illecito, le aveva portato, mentendo, ciuffi di peli risultanti dalla tosatura di otri di pelle caprina. Strumenti della magica operazione, dice Photis, erano, oltre profumi, incensi, placche metalliche incise con formule varie (defixiones su piombo?) e relitti di navi naufragate,

membra in gran copia strappate ai cadaveri dopo il compianto funebre e persino dopo la sepoltura: qua nasi e dita, là chiodi di condannati al supplizio della croce con su dei brandelli di carne, altrove fiale contenenti sangue di giustiziati e teschi recisi contesi alle zanne delle fiere  (Met. III 17).

Successivamente Panfile intreccia fra loro quelli che sembravano capelli e li brucia insieme al resto cospargendo il tutto di liquidi e profumi. Ed ecco che subito l’irresistibile potenza dell’arte magica costringe i numi ad intervenire con la loro occulta energia. I corpi a cui appartenevano i capelli che fumavano stridendo nella fiamma accolgono in sé umano spirito, ricevono percezione, udito e movimento […], cercano di penetrare in casa e si accaniscono contro la porta (Met. III 18).

A questo punto, come sappiamo, Lucio interviene e li uccide. Passando sopra evidenti incongruenze nel racconto (peli di capra avrebbero dovuto animare tre capre, anziché tre uomini), anche questo episodio ricorda molto da vicino non solo lo scenario in cui si colloca l’operato della strega nella Farsaglia di Lucano, ma anche le operazioni di magia descritte nella leggenda ebraica del Golem.
L’episodio successivo, che suscita la curiosità di Lucio e la voglia di fare la stessa esperienza, è quello della trasformazione di Panfile in un uccello. A tale scopo essa aveva usato una pomata magica e una lucerna (strumento tipico delle operazioni magiche, che abbiamo già incontrato nell’Apologia). Estasiato dalla trasformazione, alla quale ha assistito di nascosto, Lucio prega Photis di usare la stessa pozione, all’insaputa di Panfile, e di trasformare in uccello anche lui. Purtroppo Photis sbaglia pomata, e trasforma Lucio in un asino.
Un ultimo episodio interessante, da cui potrebbe aver tratto ispirazione Shakespeare per l’Amleto, vede come protagonisti Carite (la fanciulla rapita dai banditi alla quale, come consolazione, viene raccontata la favola di Amore e Psiche), Tiepolemo e Trasillo. Carite aveva sposato il suo promesso, Tiepolemo, che con uno stratagemma era riuscito a liberarla dai banditi. Ma Trasillo, pazzo di lei, aveva ucciso Tiepolemo fingendo un incidente di caccia, e poco dopo aveva cominciato a corteggiarla. A Carite appare il fantasma di Tiepolemo, che le rivela la verità. Carite, per vendicarlo, finge di accettare le proposte di Trasillo, ma alla vigilia delle nozze lo acceca e si uccide, seguita poco dopo nella tomba dallo stesso Trasillo.

···

Secondo l’ipotesi più diffusa Apuleio avrebbe utilizzato la trama di un romanzo precedente, quello di un greco, Lucio di Patre, di cui forse restano tracce nell’opera di Luciano, Lucio o l’asino. Tuttavia da un confronto sinottico fra le due opere, quella di Apuleio e quella di Luciano, si vede chiaramente che gli episodi di Socrate, di Telifrone, dell’animazione degli otri e di Tiepolemo, Carite e Trasillo (oltre naturalmente alla favola di Eros e Psyche e all’XI libro) sono opera originale di Apuleio. Apuleio quindi ha fortemente orientato il romanzo verso la teurgia e tutto ciò che ad essa è connesso. L’aggiunta in questo contesto modificato dell’intero libro XI, quello dell’iniziazione ad Iside, assume un significato ben preciso. Non solo un significato religioso, come per lo più si pensa, ma un significato magico-religioso, in cui i due termini sono inscindibili. Per sconfiggere una magia, quella che l’ha trasformato in asino, Lucio deve ricorrere a una magia più potente, quella di Iside, la maga per eccellenza, la maga da sempre, colei che ruba i nomi di Ra e, insieme, la sua potenza. Nelle Metamorfosi di Ovidio Iside era già stata l’artefice di una trasformazione, quella di una donna, Ifis, in un uomo (IX 666-797). Con Lucio il miracolo avviene di nuovo. La trasformazione di Lucio in asino nel romanzo di Apuleio assume un nuovo significato. Iside definisce l’asino ‘una bestia a me particolarmente odiosa’, e sappiamo perché dice questo. L’asino è il simbolo di Seth-Tifone, il suo nemico mortale. Ma cosa rappresenta esattamente Seth? Seth, come diceva Ugo Bianchi, è esattamente un trickster, vale a dire non tanto il simbolo del male, quanto del disordine. E da una operazione magica compiuta nel disordine e nell’evocazione del caos era venuto fuori il Lucio-asino.
Iside, da questo punto di vista, si fa garante di un ritorno all’ordine naturale, ma in virtù di una magia più potente. Iside, già nelle aretalogie, è ‘colei che sconfigge il destino’. Ma il destino o Heimarmene non è altro che l’ordine naturale delle cose, la catena di cause ed effetti. Iside può garantire un ritorno all’ordine naturale perché è superiore ad esso. Se volesse, potrebbe ella stessa fermare la barca del sole e invertire il moto dei pianeti. Essa unisce in sé sia il lato chiaro che quello oscuro della forza (la natura ambivalente di Iside risulta chiaramente dal cap. 37 dell’ Asclepio), e che questo fosse il comune sentire dei suoi adepti lo dimostrano anche il mito delle streghe di Benevento, costruito intorno all’immagine di Iside, nonché, da ultimo, le defixiones dell’Iseo di Mainz. Ma la testimonianza migliore, in questo senso, resta il romanzo di Apuleio, costruito intorno ad una fondamentale ambiguità: quella della magia egiziana e più specificamente isiaca.

 

I Templari ed il Baphomet di Von Hammer Purgstall

di P. Galiano e A. De Luca
Per gentile concessione degli autori e del Centro Studi Simmetria

Sui due cofanetti pseudo templari di Essarois e di Volterra

Alcuni amici, dopo aver letto i precedenti articoli sul giardino iniziatico di Villa Vigodarzere-Valmarana a Saonara, hanno domandato maggiori informazioni a proposito della citazione da noi riportata del saggio di Giovanni Cittadella in cui si parla, a proposito della statua del Baphomet presente nella terza grotta dei Templari, del “prototipo della fede ofitica che il Jappelli accortamente volle espresso in caratteri arabici.. perché l’orientale favella ci fosse velame a troppo liberi sensi”.

Questa iscrizione in “caratteri arabici” di cui parla Cittadella è stata sicuramente ripresa dallo Jappelli da un’incisione raffigurante il Baphomet, che venne per la prima volta pubblicata da von Hammer Purgstall in Mémoire sur deux coffrets gnostiques du moyen-âge, du cabinet de M. le duc de Blacas, Dondey-Dupré Parigi 1832 (reperibile presso la Biblioteca Nazionale di Francia cat. N° FRBNF30572982). L’incisione che abbiamo riportato nel nostro articolo (FIG. 1) è tratta dal Die Schuld der Templar di von Hammer, pubblicato a Vienna nel 1857 (testo disponibile sul web tramite Google libri).
La ricerca di von Hammer su questi cofanetti venne ripresa in due saggi da Prosper Mignard (Monographie du coffret de m. le duc de Blacas, Dumoulin Parigi 1852, reperibile presso la Biblioteca di Storia Moderna di Roma  inv. N° 001215340 e Suite de la monographie du coffret de m. le duc de Blacas, Dumoulin Parigi 1853, reperibile presso la stessa Biblioteca inv. N° 000640063), i quali ne costituiscono la naturale prosecuzione.  
Poiché la traduzione del testo “in caratteri arabici” da parte di ambedue gli autori ci  è parsa parzialmente inesatta sia nella disposizione delle parole arabe sia nel significato in sé, con l’aiuto del coautore del presente articolo, Alberto De Luca, proveremo a darne una versione più corretta.

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Chi ha fatto incidere questa scritta in “caratteri arabici” nel giardino di Saonara? Von Hammer era stato a Venezia tra il 1819 e il 1821 e quindi in tale periodo poteva aver conosciuto personalmente lo Jappelli, architetto e progettista del giardino di Saonara, o il suo committente, il conte Vigodarzere, ma poiché in tale data il von Hammer aveva pubblicato il Mysterium Baphometis revelatum, Schmid Vienna 1818 (una copia del quale si trova a Roma alla Biblioteca Universitaria Alessandrina inv. N° LA 1023749), in cui non è presente la litografia in questione ma una tavola contenente altre figure ritenute da von Hammer come “idoli gnostici” (FIG. 2), non fu probabilmente in questa occasione che lo Jappelli potè venire a conoscenza della litografia del Baphomet.
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Fu invece probabilmente l’erede di Vigodarzere, il conte Andrea Cittadella, il quale, come riferisce il cugino Giovanni ne Il giardino di Saonara (Alvisopoli, Venezia 1838), ampliò proprio la grotta dei Templari in un periodo tra il 1833 (data di pubblicazione di un resoconto di visita al giardino scritto da Tullio Dandolo in cui non si parla del Baphomet) e il 1838 (data in cui Giovanni Cittadella stampò il suo testo), ad avere modo di conoscere le Memoires sur deux coffrets gnostiques, pubblicate come si è detto nel 1832.
Bisogna quindi supporre che Andrea Cittadella avesse ragioni particolari per volere questo specifico monumento nella Grotta dei Templari, anche se su ciò si possono fare, a quanto noi ne sappiamo, solo congetture.

POSSIBILI ETIMOLOGIE DEL NOME BAPHOMET

Prima di parlare dei due cofanetti in questione e delle scritte presenti su di essi, vogliamo soffermarci su di alcune possibili etimologie del nome Baphomet.
Nel Medio Evo la parola Baphomet si ritrova in alcuni testi dell’epoca come corruzione del nome di Maometto (Mafomet): si veda ad esempio la sirventese  Ir'e dolors s'es dins mon cor asseza scritta tra il 1265 e il 1266 proprio dal templare Ricaut Bonomel:Bahometz peut mettre en oeuvre toute sa force car il sait faire agir pour lui son Melicadeser”, cioè Maometto (Bafometz) mette in opera tutta la sua potenza per mezzo del califfo Baibars (Melicadeser); in senso lato Baphomet indicherebbe un demone o un dio malvagio.

La parola potrebbe trovare la sua etimologia dal greco βαπτις e μητις “battesimo di giustizia”, uno dei nomi con cui veniva indicato da alcune sette gnostiche cristiane il Battesimo amministrato ai loro adepti, etimologia ripresa anche dal Fulcanelli tra le sue diverse interpretazioni del Baphomet, considerato “emblema delle tradizioni segrete dell’Ordine templare”, oltre quella di “tintura di Luna” da βαφευς tintore e μης o meglio μην luna, sulla base di una lettura alchemica della figura (Le dimore filosofali vol. I, pag. 164 e pag 165 nota 1 - Mediterranee, Roma 1973).  

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Al contrario, vi è chi ritiene falsa quest’ultima etimologia e preferisce riportarla all’arabo abufinamat – bufihamat cioè “padre della comprensione”, termine adoperato dai Sufi per indicare il raggiungimento di uno stato di coscienza particolare.
Guenon in Études sur la Franc-massonerie,  rifacendosi a quanto scrive von Hammer in Mémoire sulla possibile derivazione di Baphomet dalla parola araba bahumid con significato di “vitello”, forma sotto la quale viene adorata la divinità da alcune sette gnostiche siro-palestinesi e in particolare dai Drusi, nega l’esistenza di un tale termine arabo, e lo corregge in bahimah, parola che designa l’insieme degli animali, o meglio ancora nell’equivalente ebreo behemoth, plurale di behemah, che Jean Reyor nel suo commento a Études sur l’ésoterisme chrétien di Guenon traduce come “designazione collettiva dei grandi quadrupedi”.
Questa etimologia è particolarmente interessante in quanto proprio nell’ambito della setta degli Ofiti, setta gnostica alla quale von Hammer e Mignard fanno risalire l’eresia dei Templari, è presente un angelo di nome Behemoth, il quale nel “diagramma ofitico” descritto da Origene nel Contra Celsum VI 25 (trad. A. Colonna, UTET Torino 1971 ) è posto al di sotto dei dieci cerchi raffiguranti probabilmente l’insieme della creazione, in opposizione a Leviathan, il drago o serpente, che è dagli Ofiti considerato l’anima mundi, il cui nome è scritto intorno alla raffigurazione dei cerchi. Questo farebbe del Behemoth ofitico una sorta di “materia prima” che sostiene e da cui si origina la creazione.

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Un’origine persiana del nome dell’idolo viene data da Blochet (Études sur le gnosticisme musulman, in “Rivista di studi orientali”, agosto 1908), il quale fa derivare il nome bahumid dal persiano, collegandolo al termine iranico vohu-mita, ove vohu significa buono e mita misurato, quindi “ben misurato”, considerandolo quindi  un angelo mazdeo assimilato al Cristo dalle sette gnostiche di derivazione iranica, il cui nome bahumid, per lo scambio frequente tra h e f, è divenuto Baphomet.


Non possiamo sorvolare su di un’ulteriore etimologia, questa volta dal celtico, prospettata da Malvani (Le origini celtiche dell’Ordine del Tempio, in “Revue d’histoire celtique” n° 6), secondo cui, essendo la genesi dell’Ordine del Tempio nella regione anticamente celtica del nordovest francese e fiammingo, è possibile la genesi della parola dal termine anglosassone hoff n mat , “che vuol dire ‘il sapiente opaco’, opaco e dunque morto, ormai entrato nei Regni dell’Al di là”.
Il “sapiente morto” viene connesso da Malvani alla tradizione celtica e germanica delle “teste mozze”, i crani dei cadaveri dei guerrieri e degli sciamani che venivano inchiodati all’ingresso delle abitazioni e ai quali veniva attribuita da questi popoli una totale conoscenza del passato e del futuro, esempio per tutti la testa di Mimir che Odhinn consulta nelle saghe norrene, e che nel caso dei Templari, ciò che Malvani non aggiunge, sarebbe in rapporto con l’esposizione nei loro Capitoli di raffigurazioni della sola testa del Cristo derivata dal lino della Sacra Sindone secondo le ricerche della Frale (I Templari e la Sindone di Torino, il Mulino Bologna 2009).

I DUE COFANETTI

Il lavoro sia di von Hammer che di Mignard verte sull’esame delle immagini presenti su due cofanetti di pietra, il primo, come riferisce Mignard, trovato nel 1789 in Francia, nei pressi di Essarois (Coté d’Or, Borgogna) ed il secondo in Italia, a Volterra, cofanetti le cui immagini sono interpretate dai due autori a sostegno della loro tesi sull’empietà, l’idolatria e le aberrazioni sessuali dei Templari, essendo il von Hammer tra i primi promotori della tesi di un “complotto” contro lo Stato e la Chiesa che risalendo agli gnostici proto cristiani giunse fino ai  Catari, ai Templari e alla Massoneria.

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Descriviamo brevemente questi due cofanetti, i quali a detta dei due autori dovevano servire per custodire la testa barbuta dell’idolo attribuito ai Templari: quello di Essarois è in calcare e misura secondo la descrizione di von Hammer cm. 23 di lunghezza per cm. 17 di larghezza e cm. 11 di altezza, mentre lo spessore del coperchio è di cm. 6, quello di Volterra  è di una pietra più fine e misura cm. 25 di lunghezza per 12,5 di larghezza e altrettanti di altezza, ed è mancante di coperchio; ambedue al tempo dei lavori di Hammer e di Mignard, come riferisce quest’ultimo sia in , appartenevano al museo privato del Duca di Blacas.
Queste piccole arche di pietra presentano tutti i lati decorati con sculture raffiguranti strani rituali che gli autori collegano a pratiche gnostiche e che il Duca di Blacas fece a suo tempo litografare per mettere il materiale a disposizione degli studiosi, come precisa von Hammer nella dedica del suo libro al Duca (FIG. 3, 4, 5, 6 per il cofanetto di Volterra e FIG. 7 e 8 per quello di Essarois).

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Perché questi due cofanetti di calcare sono detti “templari”? semplicemente per il fatto che ambedue sono stati scoperti nei pressi di importanti Precettorie templari.
Per quanto concerne quello di Essarois, questo paese (attualmente di soli 93 abitanti) si trova a pochi chilometri da Voulaines, ora nota come Voulaines-les-Templiers, ove i Templari si installarono nel 1163 facendone dal 1175 la residenza del Priore della regione della Borgogna; il cofanetto venne ritrovato nel corso di scavi nel 1789 a circa due chilometri da Essarois, in una località nota nella zona come la Cave e appartenente al conte di Chastenay, fu in seguito acquistato presso un mercante di antichità di Digione e infine comprato dal duca di Blacas. Il luogo di ritrovamento era quindi lontano dalla sede del Priorato templare e solo la fervida immaginazione ed i preconcetti di von Hammer e di Mignard potevano farne a tutti i costi un oggetto templare.

Sul secondo cofanetto le notizie sono più scarse e lo stesso Mignard accenna brevemente nella Suite de la monographie soltanto alla sua provenienza: esso venne trovato a Volterra, ove non è certa la presenza di una sede templare, che si trovava invece a Montelopio in Val d’Era, ma anche in questo caso nessuna prova lega il luogo del ritrovamento con l’Ordine.

Il coperchio del cofanetto di Essarois porta incisa la figura del Baphomet la quale ha ispirato la statua che si trova (o meglio si trovava, essendo ora in pezzi) nel giardino di Villa Vigodarzere-Valmarana a Saonara e che i due autori considerano l’idolo adorato dai Templari, del quale si riferisce in alcune delle confessioni rese (in genere sotto tortura) nel corso del processo.
Per la precisione ricordiamo che nessun idolo del genere è stato mai trovato nelle Precettorie o nelle grancie templari e l’unico episodio che può essere correlato alla esistenza di un “bafometto” avvenne nel corso dell’inchiesta di Filippo il Bello (quindi “a caldo”, quando non sarebbe stato possibile far scomparire testimonianze pericolose), quando Guillaume Pidoye,  tesoriere del Tempio di Parigi, parlò di un “idolo” conservato nel tesoro ed una pronta perquisizione della polizia portò al ritrovamento di un reliquiario femminile d’argento recante la scritta in caratteri latini “58” (probabilmente un numero di inventario e non come alcuni vogliono la testimonianza della esistenza di 58 teste simili, visto anche che delle altre 57 non si è trovata traccia).

 

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Questi cofanetti, i quali presentano analogie con  altri cofanetti, crateri o idoli conservati al Gabinetto di Vienna e presentati da von Hammer nel Mysterium Baphometis revelatum, sono da lui stesso come da Mignard considerati opera di scultori ed incisori europei del XIII sec., come confermano le stesse iscrizioni, le quali non sono state fatte da un incisore arabo, padrone della lingua,  ma da persona scarsamente competente nella lingua, come si comprende dagli errori di ortografia e dalla cattiva incisione di alcune lettere arabe, nonché dal fatto che vengano trasferite in lettere arabe parole latine (cantate) e greche (Mete).

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Questi lavori sarebbero stati eseguiti secondo von Hammer in epoca medievale e ciò confermerebbe il suo pensiero circa la sussistenza di eresie gnostiche proto cristiane ancora in pieno Medioevo.
L’ossessione di Mignard per l’attribuzione ai Templari dei cofanetti lo porta a concludere (Suite de la Monographie) che le due iscrizioni lunghe siano ambedue di otto parole, calcolando come tali anche le lettere isolate, per esaltare il numero otto sacro all’Ogdoade degli gnostici e quindi dei Templari!
La prima traduzione che esamineremo, in quanto è la più complessa, è quella del cofanetto di Essarois (FIG. 1): esso reca inciso sul coperchio un inno che costituisce una deformazione diabolica del Cantate Domino ortodosso. L’iscrizione si svolge sui quattro lati della figura senza una precisa indicazione del suo inizio: esaminiamo ora la traduzione riga per riga secondo von Hammer.


L’inno inizia probabilmente dalla linea superiore:

Jah la la Sidna (sarebbe casomai corretto Jahla Sidna): O Dio nostro Signore; la presenza della parola Jahla come nome del dio viene connessa da von Hammer con la deposizione del templare Raimond Rubei, il quale disse che “il suo superiore baciando l’idolo dipinto (depicta figura Baffometi) disse: ‘Yalla’, parola saracena”: costui ha usato lo stesso nome con cui inizia questa iscrizione, quindi, afferma von Hammer, il cofanetto è templare.

Prosegue con la riga a destra della figura:

Houvè Mete Zonar feseba (o sebaa) B Mounkir teaala Tiz

Houvè Mete: Lui, Mete (o Mate) (qui troviamo uno degli errori fatto dall’incisore e rilevato da von Hammer, che man mano sottolineeremo ad uso degli specialisti: il punto sulla Z della parola successiva è posto per errore sul te di Mete).

Zonar: la cintura, la quale sec. Von Hammer è la cintura “dei brahmani e  dei magi adoperata come simbolo dei differenti gradi di iniziazione, simbolo sacro dei Parsi, il che dimostra l’origine persiana di certe sette gnostiche”; la cintura viene da lui messa in rapporto con la “cordicella” che secondo gli inquisitori i Templari portavano intorno alla vita e dalla quale non dovevano mai separarsi. Mignard nella Memoire  riporta l’uso nella Chiesa cristiano orientale di recarsi in chiesa portando una cintura sull’abito, uso presente anche presso i musulmani siriani, per cui in ambedue i casi “togliere la cintura” era segno offensivo o di punizione.
Questa “cordicella”, che compare tra le accuse di idolatria mosse ai Cavalieri nel corso del processo (si veda Barber Processo ai Templari pag. 311, ECIG Genova 1998) è in realtà la “piccola cintura di cuoio da allacciare sopra la camicia” (Molle Statuti cap. 138, in I Templari, la Regola e gli Statuti dell’Ordine, ECIG 1994) che faceva parte dell’abbigliamento del Templare e che si doveva portare anche di notte durante il sonno (Statuti cap. 680).

sebaa B: sette (oppure i sette) e B (che sarebbe per von Hammer iniziale di Barbelo o di Baphomet).

Mounkir: rinnega (von Hammer precisa che la parola “significa un uomo le cui opinioni e la cui condotta sono contrarie a quelle degli ortodossi”).

teaala: sia esaltato (ma rileva von Hammer che se ci fosse un punto sopra l’ultima lettera sarebbe da leggersi “il Totipotente”).

tiz: deretano (scrive von Hammer: “è la parola volgare che si usa in Siria e in Egitto, corrispondente al greco πρώκτος, e chiunque abbia viaggiato in Siria e in Egitto deve conoscere l’imprecazione ‘eiri fi tizek’”, corrispondente al nostro mandare “a quel paese” una persona).

La riga sotto la figura è parola latina scritta in lettere arabe: cantate.

Esaminiamo infine la riga a sinistra della figura:

N neslna kia tanker fiana nach B tiz

N neslna kia: la nostra fu (la N è trasposta rispetto alla parola kia per cui va letta kiane neslna - von Hammer riferisce un’iscrizione analoga presente in un idolo del Gabinetto delle Antichità di Vienna: “la nostra stirpe fu io e i sette”, con riferimento all’Ogdoade gnostica).

Tanker: tu rinnega.

Fiana: ed io (anche qui ci sarebbe una trasposizione di lettere, perché fiana doveva essere dopo neslna e quindi si dovrebbe leggere l’origine mia e nostra (dei sette).

Nach: germinante, che fa nascere; è noto che il fiorire e il fecondare come una delle proprietà del Baphomet sono tra le accuse mosse ai Templari, per cui von Hammer riconosce in questa parola una delle chiavi per l’attribuzione ai Templari del cofanetto.

B Tiz: B(aphomet) deretano: per Mignard le lettere invece vanno lette come TE M, lettere maiuscole che costituiscono per questo autore una trasposizione delle lettere del nome Mete come all’inizio della frase per N neslna kia.

Quindi potremmo riunire queste parole (cosa che von Hammer non fa) traducendo il tutto:

O Dio nostro Signore! cantate lui, Mete, con la cintura dei Sette (Eoni o Primi Angeli) e rinnegate (l’ortodossia) esaltando il deretano (cioè mediante pratiche omosessuali). L’origine mia e nostra (cioè dei Sette) è nel germinare, tu rinnega (l’ortodossia) per il deretano del Baphomet (oppure supponendo un “esaltando” come nella prima parte: esaltando il Baphomet con il deretano).

La traduzione di Mignard riportata nella Memoires si basa invece su di una arbitraria mescolanza delle due frasi  presenti sui lati lunghi del cofanetto di Essarois con quelle dei lati brevi per cui il testo arabo risulta essere nella sua interpretazione: 

Jah la la Sidna! Cantate! Houve Mete nach teaala kiane neslna fiana sebaa. Tanker mounkir tiz zonar

Riportiamo la traduzione in francese di Mignard: O notre Dieu Seigneur! Chantez! que ‘lui l’esprit – la sagesse’ qui fait germer soit glorifié! Notre origine fut et moi avec sept. Reniant en etant contraire a l’orthodoxie le plaisir t’environne.

Il che in italiano sarebbe: Cantate ‘lui lo Spirito-lei la Saggezza’ (in quanto Mignard sottolinea il carattere androgino della figura) che fa germinare, sia glorificato! La nostra origine fui io con i sette. Rinnegando ed essendo contro l’ortodossia il deretano  ti circonda (!?).

Lasciamo da parte i commenti.

La scritta presente nel cofanetto di Volterra si trova su uno dei due lati lunghi (FIG. 4) e consta di due linee che von Hammer traduce:

prima linea (von Hammer la riporta direttamente in francese senza dare la lettura in arabo):

la nostra origine.

fuoco (o parte della parola Zonar e in tal caso da tradurre con cintura).

che fa nascere (anche qui le lettere arabe sono trasposte).

Mete (anche qui trasposte in te me).

seconda linea:

Neslna : sette furono.

Mounker o Mounkeri : che rinnegano (se si aggiunge la lettera ya successiva, che von Hammer traduce in francese con reniant).

ya B  (per von Hammer ya potrebbe anche esser parte della parola “che germina” della linea superiore o della parola precedente Mounker e B starebbe per Baphomet, oppure ancora ritiene si possa leggere il tutto insieme come Tiz : deretano).

Quindi: Il Mete che fa germinare ha la nostra origine nel fuoco (o nella cintura) – i sette furono (coloro) che rinnegano per il deretano.

Von Hammer riporta l’iscrizione su di un bassorilievo appartenente al Gabinetto delle Antichità di Vienna molto simile a quelle ora tradotte per comprovare la comune origine del cofanetto francese con quelli orientali:

Sia esaltato il Mete che genera, la nostra stirpe fummo io e i sette, tu rinnegando fai ritorno all’ano (il testo dato da von Hammer è in latino: Exaltetur Mete germinans, stirps nostra et ego septem fuere, tu renegans reditus proktos fis). 
      
UNA TRADUZIONE ALTERNATIVA DEL COFANETTO DI ESSAROIS

Riteniamo sia il caso a questo punto  di presentare l’analisi e la traduzione dell’iscrizione di Essarois secondo il nostro coautore Alberto De Luca, del quale riportiamo anche alcune considerazioni.
Una sommaria lettura delle iscrizioni presenti sui lati della misteriosa figura, permette di concludere che le frasi composte da parole arabe, presenti lungo i suoi lati lunghi, tradiscono alcune alterazioni nella loro struttura ortografica e soprattutto rivelano una scarsa coerenza grammaticale, dovuta probabilmente ad una carente padronanza della lingua araba. A questo si accompagna pure una difettosa conoscenza della religione araba, che si palesa in special modo nell’iscrizione sopra la testa della figura. L’uso della frase “O Signore Iddio”, infatti, non è assolutamente arabo, ma piuttosto cristiano: nella tradizione musulmana il nome di Dio (Allâh) non è mai accompagnato dal sostantivo “Signore” e meno che meno gli viene associato un esortativo enfatico come “yalla”.
L’arabo è stato quindi deliberatamente usato per velare il testo ed il suo significato.
Ne derivano quindi ulteriori considerazioni: chi ha potuto scrivere tutto ciò, cosa significano in sé queste iscrizioni e soprattutto come leggerle?
L’autore potrebbe essere stato una persona che ha vissuto in Medio Oriente oppure che ha intrattenuto rapporti commerciali o culturali con persone provenienti da questa zona. In mancanza, però, di una datazione certa del reperto, su cui è incisa l’immagine, non è possibile nemmeno essere sicuri in merito alla sua provenienza, tanto che la supposizione precedente in merito all’autore deve essere ascritta alla mera probabilità.
Il significato delle iscrizioni è il risultato della loro traduzione (che vedremo tra poco) e della loro contestualizzazione. A questo proposito, va detto che se la traduzione, ancorché non semplice, può essere effettuata, l’incertezza che circonda la datazione ed il luogo di creazione potrebbe pregiudicarne la contestualizzazione, addirittura fino ad infirmarne una corretta comprensione. Fin tanto che non si sarà riusciti a risolvere i problemi annessi alla datazione ed alla localizzazione dell’oggetto, rimangono come possibili (ma non probabili) le opzioni gnostiche e la loro ricezione in ambito templare.
Come leggere le iscrizioni? C’è sicuramente un senso da rispettare nella loro lettura e questo non può essere piegato inopinatamente alle esigenze del “traduttore”. Cosa che invece sembra sia accaduta con il Mignard. Guardando, quindi, la figura, sono possibili quattro “direzioni di lettura”: senso orario, senso anti-orario, senso secondo il segno della Croce fatto all’orientale dal punto di vista di chi guarda la figura oppure lo stesso senso ma considerato dalla parte della figura.
La più interessante possibilità è forse l’ultima: segno della Croce assunto dal punto di vista della figura; secondo questo senso di lettura possiamo tradurre:

O Signore Iddio (sopra), Lui il Mete dalla cintura dei 7 eoni, Colui che non si comporta conformemente, (ne - aggiunto da noi) sia esaltato il deretano (ns. destra), cantate (sotto), la nostra origine rinnego, fecondando il deretano (ns. sinistra).
Oppure altra traduzione possibile: O Signore Iddio (sopra), o Lui che è il Mete dalla cintura dei 7 eoni, sia esaltato il deretano di Colui, che non si comporta in maniera ortodossa (ns. destra), cantate (sotto), fecondando il deretano rinnego la mia (propria) origine (ns. sinistra).

Alcune spiegazioni sono necessarie: mounkir è participio presente ed indica “chi non si comporta correttamente”, quindi in senso lato “normalmente”, adducendo quindi una diversità; fiane va collegato a tanker e non a neslna come fa von Hammer.
La “nostra origine” starebbe per la normale origine umana, derivante dall’unione di maschio con femmina, considerata cosa turpe dalle sette gnostiche ad impronta manichea, in quanto conduce alla perpetuazione dell’uomo in questo mondo terreno, creato dagli Eoni delle tenebre avversari del mondo della luce, per cui “rinnegando” questa generazione, “fecondo il deretano”, il che indica chiaramente la dispersione del seme e l’omosessualità.
Le possibili asserzioni che ci sentiamo di fare: il testo è stato scritto, in ogni caso, da chi aveva una certa conoscenza dell’alfabeto arabo (diretta o riflessa) anche se non della sua grammatica; non è propriamente musulmano ovvero non appartiene ad una corrente musulmana proprio a causa dell’utilizzo di quella forma sita sopra la testa della figura; il contenuto delle iscrizioni è volutamente blasfemo e certamente omosessuale: se la setta si fosse limitata a rinnegare l’unione sessuale regolare avrebbe scelto la castità, come i Càtari, e non necessariamente l’uso del deretano.
In tutta l’iscrizione, ovviamente, non vi sono assolutamente elementi per affermare che queste iscrizioni siano “templari”.

CONCLUSIONI

Certo non è facile in un breve articolo trarre conclusioni su di un argomento così complesso, nel quale si dovrebbe anche trattare, ad esempio, della effettiva presenza o meno di un idolo chiamato Baphomet presso i Templari, visto che al momento le ricerche consentono di sostenere che la “testa” o  “idolo” di cui si parla nelle deposizioni (ricordiamo ancora una volta, estorte con la tortura nel gran maggioranza dei casi) siano in realtà o il volto del Cristo della Sacra Sindone, più volte ripiegata in modo da mettere in mostra solo tale parte, oppure, e ciò è certo in molti casi, reliquiari fatti a forma di busto o sola testa del Santo (si ricordi ad esempio la particolare devozione dei Templari per San Giovanni Battista, decollato da Erode).
Probabilmente si faceva uso anche di piccoli reliquiari in forma umana intera, stando alla deposizione di Cecco di Nicola di Lanciano (in Bramato Storia dell’Ordine dei Templari in Italia vol. II pagg. 40 ss., Atanòr Roma 1994), in cui il Templare, inviato da Roma alla Precettoria di Torremaggiore in Puglia, viene costretto a rinnegare il Crocefisso e ad adorare “un idolo che gli sembrò di metallo, la cui forma era quella di un bambino in piedi e la cui grandezza era quasi di un cubito” (“ydolum quod sibi videtur erat de metallo, cuius forma erat ad similitudinem unius pueri erecti stanti et statura ipsius ydoli erat quasi cubitalis”) , atto che, dice il Precettore, non gli era stato fatto fare il giorno del suo ingresso nell’Ordine a Roma “luogo in cui non era possibile mostrare né dire tali cose” (“in loco ubi non potuerunt tibi ostendere nec dicere ista”).
Ritorniamo al Baphomet di von Hammer e di Mignard: come si è detto nessuna prova esiste di una diretta connessione con l’Ordine del Tempio se non una prossimità tra il luogo dei ritrovamenti e le Precettorie più vicine, né in tutta la storia dell’Ordine vi sono tracce certe di questi usi eretici, tantomeno nei documenti ufficiali quali la Regola e gli Statuti.
La presunta Regola templare trovata nel 1877 da Mertzdorff ad Amburgo, in cui tra l’altro si stabilisce, all’art. 19, come eseguire procedimenti alchemici, è ovviamente un falso (l’originale del manoscritto ritrovato scomparve misteriosamente, per cui rimane solo la pubblicazione a stampa di Mertzdorff), e fortunatamente non fu conosciuta da von Hammer né da Mignard, i quali l’avrebbero usata per consolidare le loro accuse ai Templari. Altrettanto dicasi di altre presunte Regole templari, quale quella attribuita ad un Gran Maestro Roncelin de Fos, mai stato Gran Maestro ma solo Precettore di Provenza e poi di Inghilterra.
La traduzione del testo del coperchio di Essarois sembra incentrare tutta la venerazione del Mete sull’utilizzo diremo non corretto del deretano: un’affermazione del genere potrebbe trovare riscontro in sette gnostiche affini, ad esempio, a quella dei Barbelognostici, dei quali è noto (almeno per quanto ci è giunto su di loro per mezzo dei loro avversari più feroci, gli autori cristiani del II e III secolo) l’uso di pratiche sessuali indiscriminate, sia secondo che contro natura, ma non in quella degli Ofiti, alla quale von Hammer cerca di ascrivere i Templari. Origene, che pure dimostra di conoscerli bene possedendo “materiale riservato” proveniente dalla setta, di tutto li accusa fuorchè di pratiche sessuali.
La cattiva ortografia araba in cui sono scritti i due testi e la scorretta grammatica adoperata, nonché l’uso di titoli inappropriati quali il “Signore Dio”, come sopra si è detto, farebbero pensare ad un falso di epoca molto lontana da quella dei Templari, i quali, ed in particolare quanti avevano vissuto in Palestina tanto a lungo da potersi essere legati ad eresie gnostiche siriane o ancor di più a sette musulmane, certamente avevano una buona conoscenza sia della grafia che dell’uso dei termini (altrimenti difficilmente avrebbero potuto traviarsi leggendo testi islamici, i quali a quel tempo non erano certo stampati in traduzione francese…).
Quindi riteniamo ci siano più prove contro che a favore di un’appartenenza di questi cofanetti ai Templari, anche se rimane sempre aperta la possibilità che un piccolo gruppo di deviati in seno all’Ordine celebrassero cerimonie segrete al di fuori delle Precettorie.
Che l’Ordine templare in quanto tale sia stato un centro di eresia e di degenerazione crediamo vi siano tutte le evidenze per negarlo, non solo per gli atti di eroismo compiuti dai suoi Cavalieri ma anche per la semplicità dei loro costumi di vita quale è attestata nei documenti autentici dell’Ordine: pertanto va secondo il nostro parere rifiutata ogni credibilità alle tesi di von Hammer e di Mignard e di quanti, ancora oggi, ne utilizzano gli scritti per ingigantire i falsi miti che oscurano la pura realtà dei Cavalieri del Tempio.
Nota: I due bassorilievi delle foto 5 e 6, il 'Battesimo di Acqua' e il 'Battesimo di Fuoco', sono stati riprodotti dallo Jappelli nel Sepolcreto dei Templari della Villa Vigodarzere a Saonara e ne abbiamo dato la spiegazione nel precedente articolo Parte II. Rispetto alle incisioni del von Hammer è stata fatta un'aggiunta, una cicogna (almeno Giovanni Cittadella così la descrive) nel secondo bassorilievo.


 

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