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Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraïm
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FELICITA'

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Esiste la possibilità di essere felici? E soprattutto: esiste una scienza per essere felici? La domanda attraversa l’intera storia dell’uomo e tutte le discipline in cui il suo intelletto si è cimentato: la filosofia, la teologia, l’antropologia, la psichiatria, la medicina/farmacologia, l’etica, la politica e naturalmente la sapienza iniziatica. Noi tuttavia, nel nostro percorso di ricerca, approfondiamo l’aspetto che, a nostro avviso, è in grado di sussumere ed informare tutti gli altri livelli e che si sviluppa attraverso la ricerca sui piani sottili e l'interrogazione degli archetipi, i messaggeri celesti: è la ricerca in sé dell’Araba Fenice che c'è, che ciclicamente si consuma e si ritrova: non è mai conquista definitiva, ma possibilità rinnovata, che richiede cura, attenzione e rispetto dei tempi naturali dell’essere, che soprattutto è nelle piccole cose, nella possibilità di accesso a un giardino interiore. Ognuno di noi ha un piccolo giardino ed esso ha i suoi fiori, i suoi colori, i suoi profumi: occorre tuttavia disporre della libertà di accedere a questo hortus conclusus delle cose nascoste, dai bellissimi fiori e dai fecondi frutti dell'anima, lì rinchiusi, che possiamo ritrovare solo attraverso questa ricerca. E curarli, perché non esiste nulla che vada da sé, soprattutto la felicità: essa si mostra e si nasconde, chiede di essere cercata senza ansia, come chi si avvicina a una sorgente silenziosa e lascia che sia l’acqua stessa a donarsi. Tra i segreti custoditi dalla tradizione, uno dei più profondi riguarda la relazione tra felicità e verità. Il vero ricercatore si riconosce “amante della verità”, “philo-alethes”, dunque un Filalete aperto all’ascolto, alla condivisione del cammino con altri pellegrini lungo una via sinodale, secondo i cinque pilastri della sua retta condotta. Filalete è di certo stato Giamblico, autore famosissimo grazie al quale conosciamo Pitagora. Nella sua opera egli definisce, caratterizza e presenta l’età tardo-antica – dal I al VI secolo d.C. – e si occupa della felicità in rapporto alla sapienza iniziatica. Certo, anche secondo questo grande maestro del passato, la ricerca della felicità non è impresa facile, ma comunque è alla portata dell’uomo, della sua intelligenza e della sua ricchezza spirituale. Infatti, essa era concepita anzitutto come qualità spirituale, implicante la pratica della teurgia intesa come l’evocazione degli archetipi divini, forme spirituali che attraverso un costante e continuo contatto ispirativo davano al mystes la possibilità di conquistare le verità divine. Ma questo non è un beneficio, tantomeno un privilegio, quanto l’autentica missione dell’uomo. Il vero dilemma dell’esistenza umana è: quale sarà il destino dopo il passaggio dal mondo visibile all’invisibile? Che cosa attende in quel mondo al quale tanti come noi credono? Ma proprio in quanto credenti, noi filaleti disponiamo e dobbiamo servirci degli strumenti per risalire verso la divinità. Dopo una vita di ricerche in quanto filalete, spiritualmente amico della verità, abbiamo la certezza che non vi è salvezza nel dolore e nella disperazione: contro ogni ascetismo fondato sulla sofferenza e sulla mortificazione crediamo nel padroneggiamento delle nostre dimensioni cosiddette inferiori ad opera della forza dello spirito: è questo il vero senso dell’iconografia di San Michele o di San Giorgio, che non uccidono il drago ma lo dominano. La sofferenza non conduce ad alcuna salvezza, tantomeno alla realizzazione spirituale: al contrario ripiega l’essere su se stesso, abbrutisce, incrina il rapporto con il mondo manifesto o fenomenico, che non risplende più e cessa di recare le orme del sacro da seguire nel ritorno all’Uno: il corpo fisico crolla, si consuma, e l’uomo resta preda della propria sfera animica e basso-psichica. Dürer ha rappresentato questo stato: pur non avendo davanti a sé un uomo sofferente fisicamente, ne ha mostrato l’essenza, un angelo seduto, sconfortato, davanti a una pietra cubica, con alle spalle il quadrato di Saturno, la divinità che nell’antica Grecia rappresentava la fine e l’inizio del dramma umano. Ha le ali, ma non riesce a volare, cioè non sa più diventare qualcosa di più elevato di quello che è, non tende più alla felicità. Rieccoci a Giamblico, alla felicità che si giunge a possedere nel momento in cui l’anima, attraverso una pratica – teurgica – di cooperazione tra l’alto e il basso, impara a gestire i “rapporti di convenienza”: il basso che si avvale per risalire dell’alto, che lo aiuta per il desiderio di ritrovare e riaccogliere qualcosa che già fa parte di sé. Ecco le ali, che l’angelo di Dürer non usa: qui il basso è sconfortato, irritato, quasi vendicativo per il fatto di ciò che vive come deiezione sul piano della sofferenza.





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